“Le storie sono architravi. Sono i prodotti di sforzi antecedenti per creare senso. Esse sono strutture per capire, spiegare, strutturare, stimolare, cambiare e vivere la vita”. Karl E. Weick, 1969

Penso che tutti attraversiamo dei momenti nei quali ci sentiamo di non capire il senso delle nostre scelte passate, della nostra vita e dell’esistenza in generale. A me succede non di rado, e devo dire che questi momenti sono accompagnati da un profondo disorientamento e timore.

Quello che però mi da forza e conforto, e che mi piacerebbe condividere con le persone che come me si trovano di tanto in tanto di fronte questo tipo di pensiero, è la consapevolezza del fatto che gli esseri umani sono portati a trovare un significato, e che a volte, per farlo, basta sforzarsi un po’ a fare quello che già di per sé è un processo profondamente umano: raccontare e raccontarci.

Bruner (1987) mette in relazione il rapporto tra esperienza ed espressione della stessa. L’autore sostiene che quando “raccontiamo” qualcosa avviene un fenomeno per cui un significato prevale su un altro nel flusso della nostra memoria, mettendo in primo piano una causa e trascurandone un’altra. Questo avviene in modo tale da creare una storia coerente e prevedibile, che abbia, quindi, un significato. Attribuire un significato significa poter rispondere a un “perché”.

Una correlazione tra due eventi collegati temporalmente crea una storia. Se vedo un leone, scappo. Perché scappo? Perché ho visto un leone. In questo modo ho attribuito un significato al mio comportamento. Noi esseri umani siamo diventati molto bravi a identificare delle correlazioni, quindi a generare significati, e quest’abilità ha un fortissimo valore adattivo.

Abbiamo intelligentemente sviluppato un cervello che discerne molto rapidamente forme intere dai frammenti, in senso proprio e figurato: scappare alla vista di una criniera gialla, infatti, ci garantisce una buona sopravvivenza, rispetto a dover aspettare di vedere il leone per intero.

Questa tendenza a fare delle previsioni basandosi sulle correlazioni sembra essere associata all’attività di un neurotrasmettitore (una sostanza che veicola le informazioni tra i neuroni): la dopamina. Proprio come un appropriato riconoscimento di pattern esita in un aumento di rilascio di dopamina, provocando una piacevole sensazione, viceversa, riconoscimenti erronei sono associati a un diminuito rilascio di essa, e a un conseguente dispiacere.

Dato che come abbiamo visto il nostro cervello per farci sopravvivere meglio ha sviluppato questa capacità di fare velocemente previsioni basandosi sulla presenza di pochi elementi (spesso incompleti), capita spesso che le nostre piccole certezze vengano smentite, lasciandoci con un senso di sconforto e smarrimento. “Perché è successo? Perché proprio a me? La solita sfortuna.”

Tuttavia, solitamente nel tempo, siamo in grado di inserire quella violazione delle nostre aspettative in una trama narrativa più ampia, che ci permette di integrare e motivare anche quell’accadimento che sul momento ci era sembrato così incoerente e ingiusto.

Otterremo così una storia ancora più ricca e intricata che avvolge anche gli eventi più difficoltosi rendendoli rilevanti. Tuttavia, ciò non sempre occorre. In caso di dolori soverchianti, di violazioni delle aspettative ripetute nell’infanzia o di patologie, le trame sono frammentate.

Nel Disturbo da Stress Post-Traumatico, per esempio, l’evento traumatico è allontanato con forza dalla trama esistenziale, proprio perché, a causa della sua inspiegabilità, cucirlo nella storia esistente sembra essere impossibile. Questo farà sì che l’evento si ripresenti con forza immutata nella memoria del soggetto con la dolorosa sensazione di star rivivendo le stesse emozioni, immagini e sensazioni corporee.

O ancora, gli stati depressivi. Uno dei sintomi prototipici della depressione, è proprio quello di non riuscire a trovare un senso, di sentirsi inutili, privi di significato, spesso in seguito a un evento molto doloroso che per un insieme di motivi (più o meno biologici, più o meno sociali, più o meno entrambi) non si è ancora riusciti a elaborare e significare.

Secondo me è anche molto interessante in questo senso l’attaccamento: quando si è molto piccoli, vi è un grande bisogno di prevedibilità, perché la nostra sopravvivenza è fortemente dipendente dal nostro “datore di cure”. Siamo quindi estremamente sensibili a ogni incoerenza, a ogni violazione delle nostre aspettative. Un genitore che non riesce a sintonizzarsi con le nostre necessità, con i nostri bisogni, perché a sua volta preoccupato, o emotivamente provato, o con storie pregresse di dolori irrisolti, sarà profondamente disorientante per il piccolo e ci porterà a crescere con una profonda paura nascosta e inconscia, ovvero che il mondo è un luogo imprevedibile e non ci conviene fidarci delle nostre previsioni, visto che fin da piccoli si sono rivelate erronee.

È interessante vedere proprio come uno degli indicatori più usati nella psicologia per capire l’origine delle difficoltà dei pazienti si basi proprio sulla qualità dell’attaccamento primario, valutando la coerenza narrativa, ovvero quanto la persona è coerente nel suo modo di raccontare la sua relazione con i genitori e la sua storia (Adult Attachment Interview, Main & Goldwyn, 1985).

Il lavoro clinico, in tutti questi casi, si basa proprio su una faticosa reintegrazione, accettazione e significazione di quanto accaduto. In questo modo, l’evento verrà dolorosamente elaborato e integrato nella storia personale pre-esistente.

Spesso ci vuole tempo, perché le cose più difficili e dolorose a volte non sono dicibili nemmeno a se stessi, e restano nascoste in zone oscure e recondite della propria mente e del proprio corpo, ed è solo dopo tanto tempo in un contesto sicuro, prevedibile ed affidabile che possono permettersi di riaffiorare, di essere ricordate, rivissute e di conseguenza raccontate.

E qui s’inserisce una dimensione imprescindibile per quanto riguarda il lavoro della narrazione: quella relazionale. Giampiero Arciero, Direttore dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Cognitiva Post-Razionalista (IPRA) scrive che la narrazione personale non è mai una acquisizione solitaria, quasi autistica dell’individuo, ma si definisce nell’arco intero di una vita, condivisa con i propri simili in quel rapporto di reciprocità che caratterizza l’esistenza umana già dalla primissima infanzia (Arciero & Bandolfi, 2012).

Infatti, se una storia che ci siamo creati o nella quale crediamo non è riconosciuta, non è condivisa, essa perde buona parte del suo potere. Oggi viviamo in una realtà nella quale storie condivise sono rare, e sono convinta che uno dei motivi (tra i tanti) per i quali oggi assistiamo a un tale ricorso alla psicoterapia, è proprio la ricerca di un significato co-costruito, di una conferma da parte di un altro che la propria vita in realtà sia ricca di significato.

Inoltre, il terapeuta permettendoci di raccontare e di raccontarci, e prendendoci per mano nei momenti di cecità, permette di giungere a una comprensione e a uno sguardo più gentile su quello che siamo diventati.

Probabilmente questo è anche uno dei motivi per i quali amiamo le canzoni, i film o i romanzi che raccontano di una storia che ci risuona, o per i quali lo story-telling è così potente ed è possibile rintracciarlo da sempre nella storia dell’essere umano: sono tutti canali a traverso i quali possiamo sperimentare e identificarci con storie altrui, permettendoci così di sentirci meno soli.

Per approfondire:

Arciero & Bandolfi (2012). Se, identità e Stili di personalità, Bollati Boringhieri.

Bruner, J. (1987). Life as narrative. Social research, 11-32.

Main, M., & Goldwyn, R. (1985). Adult attachment interview. Growing points of attachment theory. Monographs of the Society for Research in Child Development.

http://nautil.us/issue/4/the-unlikely/explaining-the-unexplainable

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