Articolo di Lucrezia Pedranzini

 

“La mia migliore amica si chiama Marina. I suoi non sanno che è lesbica. Ogni tanto provo a dirglielo: Mari, perché non glielo dici? Non ti sei rotta di andare avanti a bugie? Lei mi dice sempre sì, hai ragione, settimana prossima vado lì a pranzo e ci parlo. Poi s’inventa sempre una scusa: mia madre era incasinata per i nonni, mio padre aveva la febbre.” (tratto da una testimonianza da Blog Gay.it)

“Ho 63 anni. Non sono mai riuscito a dire a mia madre che mi piacciono gli uomini. Non so neanche io perché. Ho avuto due compagni, ci vedevamo di sera, dopo il lavoro. Mia madre è morta settimana scorsa e una delle ultime cose che mi ha detto è stata: ma io sono stata una buona mamma?” (tratto da una testimonianza da Blog Gay.it)

Queste sono le testimonianze di persone vicine ad individui omosessuali che non hanno mai (o non ancora) detto ai propri genitori di essere tali. Per paura di essere giudicati, per paura che qualcosa sarebbe cambiato, per paura di essere considerati un fallimento, una delusione.

Non tutti riescono a vivere la scoperta della propria omosessualità con serenità, soprattutto all’inizio.

Spesso l’atteggiamento sociale ancora poco tollerante nei confronti di questi temi, porta l’individuo a nascondere il proprio orientamento sessuale o a fingerne un altro, ma ancora più doloroso è fingere e mentire a se stessi.

È il caso della cosiddetta omofobia interiorizzata, ovvero di quell’insieme di “sentimenti negativi, quali l’ansia, il disprezzo e l’avversione, che le persone omosessuali provano nei confronti dell’omosessualità, propria e altrui, cioè verso i sentimenti omoerotici, i comportamenti omosessuali, le relazioni tra persone dello stesso sesso, l’autodefinizione come gay o lesbica”.

L’omofobia interiorizzata è caratterizzata da un insieme di sentimenti negativi quali la rabbia, il senso di colpa e l’ansia, e di conseguenti atteggiamenti oppositivi verso se stessi o verso altre persone in quanto omosessuali. Nella pratica clinica è molto frequente trovare atteggiamenti del genere in gay e lesbiche che sono ancora in cammino verso il coming out, tanto che in alcuni casi questo atteggiamento può essere considerato una tappa del percorso per la scoperta e l’accettazione di sé.

Il tutto parte dalla convinzione di base che si è tutti eterosessuali; è una convinzione (o convenzione) sociale che abitua gli individui, fin da bambini, a ritenere “normale” che le persone siano eterosessuali e che quindi l’omosessualità sia qualcosa che esce dagli schemi. È come se venisse implicitamente definito un assetto considerato “normale”, da cui poi ci si deve sottrarre o si deve sottrarre la persona omosessuale che si conosce. Tendenzialmente l’individuo supera questo genere di emozioni negative ed oppositive, soprattutto nel momento in cui riesce a parlarne con qualcuno che dimostra comprensione, apertura e un atteggiamento non giudicante.

Sono decisivi gli amici, i genitori o comunque le persone vicine a chi sta cercando di compiere un percorso di scoperta, definizione e accettazione del proprio orientamento sessuale. Spesso è proprio il loro atteggiamento che fa sì che l’individuo decida di aprirsi, di confidarsi, e soprattutto, di accettarsi.

Dimostrare che l’opinione nei confronti dell’individuo non cambierà in base al suo orientamento sessuale, dimostrarsi disponibili ad ascoltare, a parlarne liberamente aiuta l’individuo a non sentirsi solo ad affrontare questa questione; ecco cosa lo aiuta a sentirsi accettato innanzitutto dagli altri, ovvero da qualcuno di esterno a se stesso. E spesso il fatto di essere accettati dagli altri, consente di trovare una serenità interiore e, col tempo, di accettarsi. Ci sono invece casi in cui l’omofobia interiorizzata non viene affrontata, gestita e risolta e questo può essere la causa di profondi disagi psicologici, dovuti ad un senso di isolamento e di estraniamento.

In riferimento al fatto di nascondere la propria identità, lo psicoanalista Mark J. Blechner ha suggerito un interessante esperimento alle persone eterosessuali per far comprendere loro il peso, la fatica, il disagio e l’inadeguatezza di una vita nascosta, come quella che molti omosessuali si trovano a vivere. Blechner ha elaborato questo esperimento che dimostra il forte disagio che sperimentano quotidianamente persone costrette a nascondere la propria omosessualità a causa del pregiudizio sociale. Le istruzioni sono di non nominare più la propria compagna o il proprio compagno (usando per esempio il pronome “noi”), di parlare solo di sé stessi quando si raccontano attività svolte o accadimenti vari della propria vita; inoltre non è più possibile partecipare a eventi sociali insieme al partner ma bisogna presentarsi sempre da soli.

Le persone che hanno partecipato, hanno descritto l’esperienza come molto destabilizzante e stressante. Se proviamo ad immaginare una situazione del genere, possiamo capire cosa provano e come vivono molti omosessuali che scelgono di non rivelare la verità: sopportano questa condizione non solo per un mese, ma a volte per anni o per una vita intera.

Bibliografia:

“Investigating the influence of shame, depression, and distress tolerance on the relationship between internalized homophobia and binge eating in lesbian and bisexual women” di Vanessa Bayer, Jacalyn J. Robert-McComb, James R. Clopton, Darcy A. Reich (2016).

“Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali” di Vittorio Lingiardi, Nicola Nardelli

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