Articolo di Francesco Latini

 

I raggi del Sole cominciano a scaldare le giornate, a farsi più insistenti, a districarsi fra le gemme riscoprendo i colori. Nonostante mentre scrivo non sia ancora l’Equinozio, di fatto siamo già in Primavera. Ma non è solo la Natura a risvegliarsi: le calotte polari si ritirano anche dai corpi che, alleggeriti degli strati invernali, si flettono liberi verso il cielo lasciando intravedere di nuovo le curve e la pelle, il cui candore tradisce i lunghi mesi di oscurità.

E mentre osservo la vita riemergere dal sottosuolo, visto che non esistono più le mezze stagioni il pensiero si proietta veloce all’Estate, al mare, alle dita piene di sabbia, alla spiaggia verso la quale ritorno quasi ogni anno come la tartaruga che per deporre le uova torna sempre al luogo in cui si schiuse. Un temporale estivo turba comunque la mia pace mentale e dai recessi dell’inconscio monta lentamente una frase di “Hipsteria” di Niccolò Contessa: “spietato e inesorabile è lo sguardo maschile”.

Mi torna allora alla mente una ragazza, una ragazza che chiamerò Zeta, con la quale ho condiviso l’adolescenza e che è stata oggetto del primitivo attacco del maschio. La sola colpa di Zeta fu quella di essere sbocciata troppo presto e di venire da un ambiente ben diverso da quello della Provincia, ma tanto bastò al gruppetto di maschi insicuri alle prese con i primi umori della pubertà per etichettarla come una ragazza facile.

Per quanto Zeta si sforzasse, ogni suo comportamento veniva letto come un tentativo di sedurre ed ammaliare, di manipolare e circuire, e non come quello che in realtà era: il tentativo di una ragazzina di farsi accettare dal gruppetto dei coetanei che, sfortuna sua, era a grande maggioranza maschile. Inutile dire che poi Zeta, alla fine, finì per accettare quel ruolo e farlo suo, almeno in superficie, in una sorta di profezia che si auto-avvera.

Tutto questo mi ha quindi portato a riflettere sugli effetti potenzialmente devastanti che l’etichettamento può avere sulla persona, su come questa possa rimanere plasmata da un ruolo che non sceglie lei ma piuttosto gli viene imposto dagli altri.

In generale, l’etichettamento è un’euristica mentale che utilizziamo per semplificare la realtà che ci circonda, ma i suoi effetti possono essere molto pervasivi e devastanti: per esempio, in ambito scolastico l’effetto dell’etichettamento è stato riassunto da Rosenthal e Jacobson nel loro famoso articolo “Pygmalion in the Classroom” (1968).

Dopo aver somministrato a degli alunni di una scuola pubblica elementare californiana un test finalizzato ufficialmente ad individuare i bambini con un elevato tasso di crescita mentre, in realtà, forniva solo informazioni circa il loro Quoziente Intellettivo (QI), gli autori suddivisero casualmente i bambini in 2 gruppi (“scattanti” vs. “controllo”) e le insegnanti vennero messe a conoscenza di quegli alunni che avrebbero dovuto mostrare una crescita maggiore; al termine dell’anno scolastico, venne nuovamente misurato il QI dei bambini ed emersero dei risultati molto interessanti.

In particolare, se il gruppo degli “scattanti” guadagnò nel complesso circa 4 punti in più di quello di “controllo”, la differenza si rivelò drammatica nelle classi di prima (circa 15 punti) e di seconda (circa 10 punti) e ciò per diverse possibili ragioni: perché i bambini più piccoli sono anche quelli più suscettibili all’influenza sociale sia esplicita che implicita; perché i bambini più piccoli non hanno ancora avuto modo di costruirsi una reputazione positiva o negativa e le insegnanti sono quindi più fiduciose nelle loro capacità; perché i bambini più piccoli sono più sensibili ai processi con i quali le maestre comunicano le loro aspettative su di loro (ad esempio possono essere più sensibili ai loro gesti, al loro modo di guardarli, al loro modo di toccarli, al loro modo di parlargli e così via); perché le maestre dei gradi inferiori differiscono in molti aspetti da quelle dei gradi superiori.

Si osservò, inoltre, un effetto diverso per maschi e femmine, che fiorirono soprattutto in quegli aspetti del funzionamento mentale già più sviluppati al pre-test: i primi nel QI verbale, le seconde nel QI di ragionamento. Risultati speculari ottenuti in uno studio simile condotto da Evans (1969), dove al pre-test i maschi mostrarono un maggiore QI di ragionamento e le femmine un maggiore QI verbale lasciano supporre che le aspettative positive delle insegnanti vadano ad interagire soprattutto con quelle abilità degli alunni in partenza più sviluppate.

Al di là dei singoli risultati, appare chiaro come le aspettative degli insegnanti portino i bambini ad identificarvisi e a comportarsi di conseguenza in una sorta di profezia che si auto-avvera: non posso fare a meno di pensare a quanti miei compagni che hanno ricevuto il marchio del “somaro” o del “dotato” siano rimasti imprigionati in ruoli che non erano i loro ma che, loro malgrado, hanno finito con l’indossare; non posso che provare empatia per quelli che finivano sistematicamente fuori dall’aula e chiedermi se se lo meritassero veramente o, piuttosto, fossero vittima della maschera che gli attribuiva la maestra.

Ricordo ancora un mio compagno delle elementari, appena trasferitosi dal Sud Italia, che parlava con un accento molto diverso dal mio e che spesso piangeva perché gli mancava l’amico del cuore: nonostante il suo essere stato sradicato e trapiantato a forza in un nuovo contesto, una delle mie maestre non mostrò mai la minima compassione per la sua situazione e lo considerò fin da subito un bambino poco intelligente ed inadatto allo studio.

Iin effetti non ha intrapreso una carriera accademica, ma non posso fare a meno di chiedermi se abbia senso parlare di bambino poco adatto allo studio in seconda elementare, se l’atteggiamento di quella maestra non gli abbia precluso, già nella tenera infanzia, delle strade. Ancora oggi, con alcuni miei amici, ci chiediamo se quella maestra, con noi tanto gentile, non fosse stata anche un po’ “razzista” con quel bambino dalla risata facile e dall’accento strano.

ADESSO COSA PENSI?