La verità
È che ti fa paura
L’idea di scomparire
L’idea che tutto quello a cui ti aggrappi prima o poi dovrà finire
La verità
È che non vuoi cambiare
Che non sai rinunciare a quelle quattro, cinque cose
A cui non credi neanche più.

(La Verità, Brunori SAS)

Ho ascoltato per la prima volta questo verso in auto. Guidavo, era un’uggiosa giornata primaverile. Ricordo molte giornate uggiose allora. E ricordo perfettamente che le parole di questa canzone mi esplosero in testa come una bomba.

In quel preciso istante fui del tutto consapevole del fatto che quelle parole avevano colto qualcosa che stavo provando da un pezzo e cui non riuscivo a dare un nome, un amaro cocktail di tristezza, ansia e paura che mi tormentava da tempo:

era la fine dei miei vent’anni – o crisi del quarto di secolo.

Quarter Life Crisis (QLC) è il nome che la psicologia ha attribuito ad uno stato depressivo, ansioso, panico che colpisce i giovani adulti (o come ci chiamano i vecchi, Millennials) in un periodo di tempo piuttosto circoscritto, ovvero attorno ai 25 anni, età in cui, tendenzialmente, si va per la chiusura del percorso di studi e l’ingresso nel mondo del lavoro.

Per quanto non siamo di fronte ad una vera e propria etichetta diagnostica, l’esistenza di questa crisi ha indubbiamente sollevato una certa attenzione mediatica, tanto che a leggere autorevoli fonti in materia psicologica (come Cosmopolitan e Internazionale – irony allert!!!) pare che ci si trovi di fronte ad una sindrome psichiatrica.

Notare bene, non sto adducendo che questo vago senso di sconforto esistenziale riportato in realtà non esista: esiste eccome.

Le ansie legate al futuro professionale, al termine di un percorso universitario carico spesso di fallimenti e rimpianti, la paura di diventare grandi e responsabili ma al contempo l’impossibilità di sentirsi ancora bambini spensierati, la progressiva insofferenza dello stare a casa coi genitori, conflitti tardoadolescenziali lasciati aperti per troppo tempo, una prospettiva socioeconomica non troppo rassicurante per i giovani: sono sentimenti che penso ognuno di noi – Millennials (???) – avrà sperimentato più o meno vistosamente.

Io stesso, come dicevo, sperimento un certo male di vivere legato a questi aspetti della crescita.

Le fonti citate che parlano della QLC al grande pubblico si riferiscono a certi lavori della psicologia che rinvengono alcune specifiche cause di tale periodo di crisi nelle specificità del mondo contemporaneo, tanto che, come si diceva, questa particolarissima depressione ansiosa sembra essere un fatto tutto dei Millennials. Vero in parte.

In parte è del tutto evidente come l’ansia sia un fenomeno molto attuale nei giovani: non serve prendere in mano dati e ricerche, basta notare, con grande facilità, come “ansia” e vari nomi di ansiolitici siano ormai entrati del tutto a far parte del nostro linguaggio naturale e nello slang giovanile – che ansia!

Sono tante le sfide che pone il mondo moderno: Atwood (2008) ad esempio annovera la mancanza di valori e regole salde, l’influsso della tecnologia, la fluidità delle relazioni, la crisi economica e la saturazione del mercato del lavoro.

L’orizzonte futuro può essere così nero da indurre facilmente una serie di vissuti di sconforto e di angoscia, spesso anche panica. Fattori di questo tipo, che definiamo contestuali o situazionali, hanno di sicuro un peso rilevante nel definire l’entità dei sintomi, la diffusione nella popolazione e perché tale senso di sconforto sia tipico di una precisa fascia di età.

Ma perché proprio a 25 anni? E qui c’è l’inghippo: troppo facile dare sempre la colpa al Governo ladro e alla sfiga di nascere negli anni ’90 ragazzi. A darci una qualche indicazione al proposito interviene chi per primo ha supposto l’esistenza di tale crisi esistenziale, lo psicoanalista Erik Erikson.

Erikson (1950) propone una teoria dello sviluppo molto affascinante, che vede la crescita individuale segnata da una serie di stadi e traguardi: ad ogni stadio dello sviluppo individuale corrisponde uno specifico conflitto fra istanze psichiche, ovvero bisogni individuali.

Nella fattispecie, il conflitto tipico dell’età in esame (stadio del giovane adulto) è quello fra intimità (inteso come desiderio di creare relazioni intime appaganti) e isolamento (inteso come desiderio di rimanere da solo).

La ricerca e la strutturazione della propria identità muovono proprio, a detta di Erikson, attraverso una ristrutturazione del proprio mondo relazionale.

È probabile che dai tempi di Erikson ad oggi i compiti evolutivi del giovane adulto siano mutati: Robinson (2015) ad esempio propone un restyling postmoderno dello stadio eriksoniano, ad oggi caratterizzato maggiormente da un conflitto fra impegno sociale (trovare il proprio posto in società) e indipendenza.

D’altro canto, dalla teoria di Erikson permane un concetto fondamentale: che in quel periodo, indipendentemente dalle situazioni contestuali che il giovane attraversa, avviene un profondo cambiamento della propria vita che prende il nome di crisi normativa.

Questa è definibile come un evento perturbante ma necessario che, attraverso l’abbandono di vecchi modelli e l’acquisizione e strutturazione di nuovi, porta il giovane a conquistare, progressivamente, la sua identità adulta.

La crisi del quarto di secolo, in sostanza, ha di certo una notevole rilevanza e risonanza oggi, in quanto fortemente influenzata da certi elementi socioeconomici congiunturali, ma è un momento di crisi tipico delle età di mezzo e tipico di quello specifico spaccato temporale.

Se avete visto Il Laureato (1967) di Mike Nichols avrete indubbiamente compreso come certe emozioni, certi sensi di vuoto e una certa indolenza siano davvero tipiche della fase piuttosto che dell’epoca.

Ma se la QLC è un evento normativo di crescita, cosa ce ne facciamo? Gli orientali vedono la crisi come un’opportunità di crescita, noi occidentali siamo abituati che dal dolore si possa imparare molto: ad ogni modo occorre una certa costanza nel vivere un senso costante di malessere e, nonostante tutto, dover trovare il proprio posto nel mondo.

Tenere duro, pensare in maniera positiva, avere sempre chiaro quale sia il focus della sofferenza, mantenendo la consapevolezza sui motivi reali che ci fanno sentire così impauriti e spacciati, rappresentano buoni punti di partenza.

Focalizzarsi sugli obiettivi futuri è un altro passaggio necessario, cercando di capire a fondo come ci vediamo “da grandi”, proporsi un piano d’azione, scomponendosi il percorso in piccoli obiettivi a breve/medio termine, diminuendo così l’angoscia di fronte all’insormontabilità dei problemi.

Tenere sempre a mente che andare avanti non vuol dire perdere per forza qualcosa e che il balzo verso l’età adulta non può essere un processo “tutto e subito”: la crescita è un processo costante, la ridefinizione della nostra immagine è un qualcosa che accompagna tutti i grossi momenti di cambiamento, com’è stato in adolescenza, come sarà in futuro.

Per tutto il resto c’è la psicologia: quando la sofferenza e l’inerzia diventano difficili da gestire, la fine del primo quarto di vita rappresenta un’ottima opportunità di riscrivere il proprio passato e gettare le basi del proprio futuro, e qualunque intervento terapeutico volto in tale direzione (penso alla terapia narrativa, alla terapia familiare o al counselling) può essere una vera e propria occasione di fare ordine nel marasma emotivo che, fisiologicamente, si accompagna ad uno dei più importanti momenti del nostro sviluppo.

 

Bibliografia:

Atwood, J. D., & Scholtz, C. (2008). The quarter-life time period: An age of indulgence, crisis or both?. Contemporary Family Therapy30(4), 233-250.

Erikson, E. H. (2008). Infanzia e società. Armando Editore.

Robinson, O.C. (2015). Emerging adulthood, early adulthood and quarter-life crisis: Updating Eriksonfor the twenty-first century. In. R. Žukauskiene (Ed.) Emerging adulthood in a European context (pp.17-30). New York: Routledge.

ADESSO COSA PENSI?