La negazione della dimensione simbolica nell’anoressia

L’Anoressia Nervosa rappresenta un perfetto esempio in negativo della complessa natura che caratterizza il corpo umano. Il corpo non è solo un mezzo materiale e funzionale per compiere azioni in uno spazio, ma anche uno strumento simbolico, una forma di linguaggio, che permette di comunicare agli altri e a noi stessi questioni che superano il livello della corporalità stessa. Questa dimensione simbolica del corpo viene inscenata e al contempo anche negata dal sintomo anoressico.

Una delle caratteristiche chiave dell’anoressia è infatti una tendenza esasperata alla concretezza, all’adesione verso ciò che può essere toccato con mano, riscontrato empiricamente.

Le pazienti anoressiche rimangono incatenate in discorsi e pensieri infiniti che riguardano il cibo ed il corpo, e che negano quindi l’esistenza di una dimensione altra che esuli quella materiale e concreta (Buhl, 2002). Ogni cosa diventa cibo, ogni cosa si trasforma in grasso sulle cosce.

Il mondo si riduce e si restringe a due elementi, diventando così anche più facile da leggere. D’altronde, dietro al comportamento anoressico risiedono molti significati. Il loro corpo spettrale non è un corpo muto, come viene presentato e vissuto dalle pazienti, bensì un corpo che grida. Un urlo che risulta però udibile solo all’altro e non al soggetto stesso.

Il movimento fenomenologico francese, ed in particolar modo Merleau-Ponty (1966), ha per primo evidenziato come il corpo non possa essere ridotto ad un oggetto meccanico che risponde agli stimoli ambientali (visione ereditata dal dualismo cartesiano che considerava mente e corpo entità ontologicamente distinte).

Al contrario, sottolinea l’autore, il corpo altro non è che un continuo dialogo in interazione con il mondo, e le esperienze che facciamo sono di conseguenza sempre cucite sulla pelle, vissute nella carne.

In altri termini, noi non facciamo esperienza con il corpo ma nel corpo. Poiché ogni esperienza è un’esperienza incarnata, ne risulta che i significati che investono la dimensione corporale superano il campo funzionale per sfociare in quello simbolico.

Nel corpo, nella sua manipolazione, nell’esperienza che facciamo di esso, risiedono significati anche metaforici. Non un appendice, ma una parte attiva di essenza.

Il termine metafora era stato definito da Aristotele in poetica come l’operazione di “dare a qualcosa il nome che appartiene a qualcos’altro”. Usare un’immagine per rappresentare un fenomeno parallelo che non viene esplicitato ma evocato, grazie ai punti di contatto che presenta con l’immagine stessa. Una similarità-nella-differenza (Barnes, 2014).

Quando una metafora si concretizza ciò che succede è che l’immagine raffigurata cessa di essere vissuta come rappresentazione indiretta di qualcos’altro, ma mantiene unicamente il proprio significato letterale.

Ed è proprio questo che succede nelle paziente anoressiche. Il significato metaforico della carne e delle sue trasformazioni evapora, lasciando unicamente in superficie la crosta del senso immediato e concreto (Skårderud, 2007). “Sono solo il corpo che vedi, sono solo le azioni che compio. Dietro non c’è niente”.

In questo senso Massimo Recalcati (1997) parla dei sintomi alimentari come di “un mistero in piena luce”. Il corpo anoressico si impone come un’evidenza che satura l’identità del soggetto e che non richiede di un ulteriore spiegazione. L’anoressica si presenta come un’identificazione monolitica solidificata con il proprio sintomo: “Io sono un’anoressica”.

La dimensione metaforica si indebolisce, si cristallizza, e viene sostituita da quella olofrastica; dove l’olofrase (o parola-frase) rappresenta una figura retorica in cui una sola parola viene utilizzata per indicare il significato di un’intera frase.

Il resto della proposizione resta sottinteso o addirittura viene negato. Così il sintomo anoressico non rimanda ad altro, non interroga una spiegazione, ma mantiene unicamente il significato della propria evidenza: “Io sono il mio sintomo”.

Seguendo questa logica, le pazienti anoressiche fanno dell’essere scheletriche la loro nuova identità. La loro essenza si esaurisce nelle ossa che mostrano. Si tratta però di un’identità tautologica che cancella il senso per trasformarsi in segno. Lettere messe una di fianco all’altra che producono un suono, ma non una parola. L’anoressica d’altronde non ha richieste, né parole: si basta per quello che è, e le basta avere se stessa.

Non c’è descrizione del vissuto emotivo perché le emozioni vengono negate. Non dolore o tristezza, non rabbia o paure: il mondo perde di colori e senso, omologandosi al corpo. Eppure questo ingrigimento non viene vissuto come una perdita bensì come una conquista.

Nella negazione della propria umanità, l’anoressica si sente forte, stoica; e dunque la malattia viene vissuta dalle pazienti come una risposta piuttosto che come un problema.

Per questo difficilmente le pazienti anoressiche richiedono un aiuto specialistico. Più spesso capita che a rivolgersi a psicologi e psicoterapeuti siano soggetti terzi, come i genitori o gli insegnanti.

Il corpo emaciato, morente dell’anoressica infatti è in grado di bucare l’altro: di ridurlo in una condizione di angoscia, e dunque di muoverlo contro la paralisi emotiva del soggetto (Recalcati, 1997). Nell’anoressia vi è quindi una paradossale dissociazione fra sintomo e domanda: chi presenta il sintomo non richiede aiuto, chi domanda aiuto non presenta il sintomo.

Nella cura del disordine, dunque, la prima, e più difficile, operazione che deve essere fatta è quella di riagganciare il soggetto alle dimensione della parola: insegnargli di nuovo a leggere le metafore, a vivere il corpo come oggetto che parla, passando così da una prospettiva della terza persona a quella in prima persona.

In altre parole, prima di poter operare un qualsiasi cambiamento comportamentale è indispensabile far nascere nel soggetto stesso una domanda di aiuto, e accompagnare poi le pazienti nel passaggio da domanda di aiuto a domanda di sapere. Devono essere le pazienti stesse ad interrogarsi su quale sia il senso del loro sintomo perché il senso ne possa essere ritrovato.

Abbandonare il sintomo comporta però una dimensione di lutto. Se l’anoressia viene assunta dalle pazienti come identità personale, rincominciare a mangiare implica allora una perdita identitaria, un taglio, una lacerazione.

Per questo è indispensabile che in terapia vi sia una fase preliminare che permetta alle pazienti di trovare uno spazio per poter vivere il dolore della perdita del sintomo. Non siamo solo segni, ma siamo intrisi di senso, che corre nelle vene, che è inscritto su ogni osso in piena mostra. C’è una dimensione temporale per cui i sintomi si presentano all’interno di una storia di vita che segue una logica narrativa.

Riprendere in mano il filo perduto della propria storia è dunque una prima fase indispensabile per il processo di cura. Bisogna compiere un furto di evidenza per rendere il soggetto permeabile all’interpretazione.

La fame di senso è però più difficile da gestire rispetto a quella di stomaco, ed il passaggio dall’una all’altra rappresenta un trauma che lo spazio terapeutico deve essere in grado di contenere.

Questa della malattia è la parte che più ferisce: la guarigione. Ritornano le emozioni, le paure, i pensieri: l’anima; come se fosse la prima volta che le si prova, come un cavallo imbizzarrito da addomesticare.

 

Riferimenti

Barnes, J. (Ed.). (2014). Complete Works of Aristotle, Volume 1: The Revised Oxford Translation (Vol. 1). Princeton University Press.

Buhl, C. (2002). Eating disorders as manifestations of developmental disorders: language and the capacity for abstract thinking in psychotherapy of eating disorders. European Eating Disorders Review, 10(2), 138-145.

Merleau-Ponty, M., & Smith, C. (1996). Phenomenology of perception. Motilal Banarsidass Publishe.

Recalcati, M. (1997). L’ultima cena: anoressia e bulimia. Milano (IT): Bruno Mondadori Editore.

Skårderud, F. (2007). Eating one’s words, Part I:‘concretised metaphors’ and reflective function in anorexia nervosa—An interview study. European Eating Disorders Review, 15(3), 163-174.

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Sofia Sacchetti
Sono psicologa abilitata in Lombardia, ed esercito la professione come libero professionista. Mi sono laureata in Psicologia Clinica a Pavia e in Research applied to Psychopathology presso l’Università di Maastricht, unendo nella mia formazione l’amore per la pratica clinica e la spinta verso la ricerca. La mia principale area di studio sono i disordini alimentari, tematica che ho incontrato e approfondito in tesi magistrale, sotto la guida del professor Massimo Recalcati, e durante diversi tirocini: in Olanda, con il team di Anita Jansen, e a Londra presso l’unità psicoanalitica di Peter Fonagy. Attualmente mi sto specializzando come psicoterapeuta a stampo psicoanalitico, e sto portando avanti un dottorato di ricerca sul tema della percezione del corpo nei disordini alimentari. Mi occupo di consultazioni e di interventi psicologici rivolti ad Adulti e Adolescenti. Negli ultimi anni ho svolto percorsi di supporto psicologico presso il consultorio del Women Health Information and Support Centre, e presso una Struttura Residenziale Psichiatrica Terapeutico-Riabilitativa. Ricevo privatamente a Milano, ma svolgo anche percorsi online a distanza. Per contattarmi: v.s.sacchetti@gmail.com

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