Le nostre vite sono un flusso costante di eventi e di trasformazioni del corpo e della mente che impongono necessariamente un cambiamento alla nostra persona, ai bisogni, al modo di vivere le emozioni e le relazioni.

A volte, questo processo non si verifica naturalmente e sospettiamo che qualcosa non va. Magari ci troviamo a ripetere sempre gli stessi errori, proprio quando vorremmo tanto evitarlo, oppure iniziamo a manifestare sintomi che ci preoccupano e che qualcuno potrebbe definire ansia, depressione o attacchi di panico.

O ancora ci sentiamo limitati, insoddisfatti, bloccati: questi sono indizi che dobbiamo cambiare qualcosa perché le nostre modalità abituali non sono più adeguate. Ma come è possibile farlo? E cosa significa cambiare?

Proveremo a dare una risposta. Il tema che vorrei affrontare riguarda il fatto che difficilmente si cambia da soli: come la nostra mente e i nostri pensieri hanno origine dalla relazione, anche il cambiamento psichico avviene nell’incontro con l’altro.

Proprio perché si basa su una relazione interpersonale molto profonda, la psicoterapia rappresenta una delle maggiori possibilità di cambiamento e la prenderemo come esempio perché è un fenomeno studiato.

Sulla psicoterapia ho sentito spesso molti pregiudizi, soprattutto da quelle persone che pensavo ne avessero più bisogno e che invece cercavano di evitare l’argomento con frasi quali “come può aiutarmi uno che non mi conosce neanche?” oppure “non ho bisogno di pagare un altro che mi dica cosa devo fare”.

Ovviamente sono considerazioni fuorvianti perché il compito dello psicologo non è certo dire ai suoi pazienti cosa fare o sviluppare in loro legami di dipendenza ma semmai quello di aiutarli a capire come gestire autonomamente certe questioni, fornendo loro degli strumenti che ancora non hanno o non sanno di avere.

Lo psicologo non risolve i problemi per noi ma può aiutarci a cambiare.

Ma perché cambiamo quando andiamo in psicoterapia? La ricerca sull’efficacia delle psicoterapie, cioè sull’esito, ha messo in luce che le psicoterapie, generalmente, funzionano e dunque producono un cambiamento. Sulla natura di questo cambiamento ci sarebbe da discutere poiché spesso è considerato solo sulla base di una riduzione dei sintomi.

Ad ogni modo, la cosa meno facile da capire è proprio come le psicoterapie funzionano, come riescono a produrre il cambiamento, risposta che può provenire solo dalla ricerca sul processo, ovvero l’insieme degli eventi che si verificano all’interno della terapia.

Accanto ai bisogni primari come quello di sopravvivere, di riprodurci, sentirci protetti eccetera, vi è un’altra antica e potente spinta che ci caratterizza come esseri umani: il bisogno di condividere con gli altri i nostri contenuti mentali, cioè i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre sensazioni. In una parola: intersoggettività.

L’intersoggettività prende forma nel momento in cui, tra due o più persone, ciascuno può partecipare all’esperienza soggettiva dell’altro oppure creare con lui una nuova esperienza di condivisione, stabilendo così un diverso tipo di contatto umano.

Come vedremo, l’intersoggettività è tra le motivazioni principali che inducono le persone alla psicoterapia e al cambiamento. Ma in che modo questo avviene? La risposta non è semplice e per entrare nel merito assumeremo la prospettiva fornita dal grande psichiatra, psicoterapeuta e ricercatore americano Daniel Stern, che a lungo si è occupato dello studio del processo in psicoterapia.

Il presupposto di partenza è che noi siamo psicologicamente e consciamente vivi soltanto nel “ora”, ovvero in un momento nel presente in cui viviamo consapevolmente un’esperienza reale attraverso la mente e il corpo.

Secondo Stern, il cambiamento psichico si verifica in quelle situazioni in cui siamo particolarmente consapevoli della nostra esperienza soggettiva proprio nell’atto stesso del suo compiersi. Questi particolari momenti di consapevolezza dell’esperienza soggettiva vengono chiamati da Stern momenti presente.

Si tratta di un evento affettivo breve, circa 3-5 secondi, ma molto significativo che si verifica all’improvviso senza panificazione. Esso ha origine da eventi che irrompono nell’ordinario e violano le aspettative come ad esempio una novità, un’emozione inaspettata, la confidenza di un amico o un commento azzeccato dello psicologo, o un inconveniente che, anche se piccolo o banale, richiede di trovare una soluzione.

Nel corso di un’intervista microanalitica condotta da Stern (Stern, 2005), una donna rivela che quella mattina, mentre a colazione realizzava che era finito il burro, la sua mente veniva attraversata da una successione di pensieri: è finito il burro e questa è una cosa brutta; meglio così tanto sono a dieta; potrei usare il miele che è molto buono ma è meglio di no, il miele è speciale è si mangia solo la domenica; cos’è questo strano pane, oh, dopo tuto non è così male.

Questa alternanza tra affetti e morale, bene e male, piacevole è spiacevole, messa in luce da un semplice problema quotidiano (è finito il burro), può rappresentare una caratteristica più generale della personalità della donna.

Il momento presente è quindi un momento di autentica realtà soggettiva, in cui le emozioni, le sensazioni, le percezioni, le azioni, i ricordi, le idee e le fantasie attraversano la nostra scena mentale.

Non si tratta di un resoconto verbale bensì dell’esperienza così come viene vissuta, nel momento stesso in cui si verifica. Infatti, mentre è vissuto il momento presente non può essere colto dal linguaggio che ne consente solo una ricostruzione a posteriori.

Per questa ragione nel momento presente la consapevolezza della nostra esperienza è soprattutto di tipo implicito: significa che la mente elabora l’esperienza e si ristruttura in funzione di essa, cambiando credenze, pensieri e il modo di vivere le emozioni senza che questo processo raggiunga necessariamente la coscienza e possa essere verbalizzato.

È un processo molto più vicino al “percepire” che al “riflettere” perché si basa in larga parte su una prospettiva fenomenologica.

Immaginiamo ora due persone che giungono ad una conclusione dopo una discussione lunga ed emotivamente impegnativa. Improvvisamente, dopo alcuni secondi di silenzio, una delle due inizia a piangere.

Dopo poco, i due si guardano negli occhi e sui loro volti compare un sorriso spontaneo: non c’è bisogno che si dicano nulla, entrambi si sentono molto vicini e sanno di aver condiviso qualcosa di importante. In quel preciso momento condividono un vasto insieme di sensazioni, emozioni e pensieri e fantasie; si è realizzato un contatto psicologico intimo. Questo è un momento presente condiviso.

D’ora in poi la relazione tra queste due persone non sarà più la stessa perché qualcosa è cambiato nel modo in cui si porranno l’una nei confronti dell’altra. A fare la differenza non è tanto il contenuto dello scambio verbale quanto la reciproca apertura emotiva e la compartecipazione degli stati affettivi che si è creata.

Il momento presente contiene in sé l’intenzione implicita di adattarsi a qualcosa di nuovo, di gestire una situazione o risolvere un problema (ad esempio, è finito il burro) e per questo ci rende particolarmente consapevoli di quello che sta accadendo.

Nell’esempio di prima, le emozioni, le sensazioni e i pensieri generati dal pianto improvviso sono senz’altro fenomeni che portano i membri della coppia ad adattarsi alla situazione in corso e ad essere più consapevoli di quanto sta accadendo tra di loro (almeno ad un livello implicito).

I momenti presenti condivisi, ovvero quelli in cui due persone fanno esperienza dei reciproci contenuti mentali, sono quelli che permettono il cambiamento perché rendono possibile il contatto tra le menti di due persone.

Secondo Stern, ogni cambiamento implica un’esperienza reale condivisa da due o più persone in un momento presente. Ma perché è così importante questa condivisione?

Seconda parte.

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Lapo Attardo
Nasco a Milano nel novembre del 1985 e dopo una laurea in informatica a indirizzo musicale vengo attratto da quelle che saranno due mie grandissime passioni: la psicologia e la musicoterapia. Mi diplomo in canto presso i Civici Corsi di Jazz e mi formo in musicoterapia presso il Centro di Musicoterapia di Milano e il Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense dell'Università di Pavia. Nel mentre faccio diversi lavori: il cameriere, il maestro di musica con i bambini, l'educatore con utenti disabili; tutte grandi esperienze. Ora sto concludendo la formazione in Psicologia Clinica e Neuropsicologia, lavoro come musicoterapista presso strutture sanitarie lombarde e collaboro a progetti di ricerca scientifica sugli effetti della musica e della musicoterapia. La musica è ancora un divertimento e mi esibisco in eccentriche formazioni di musica vocale. Contatti: attardolapo@gmail.com

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