Articolo di Lucrezia Pedranzini

 

Il gioco per il bambino è una faccenda seria; è qualcosa di bello e divertente, certo, ma anche serio. L’attività ludica è prima di tutto “un atto libero, che si svolge per puro piacere dello spirito” (J. Huizinga, 1973), e quindi diverte e coinvolge chi vi si dedica, altrimenti non ha senso. Ma è allo stesso tempo una cosa seria perché è proprio attraverso il gioco che il bambino si mette alla prova, entra in relazione con l’ambiente ed esprime la propria fantasia e le proprie attitudini. “Il gioco è un bisogno fisiologico” sostiene Gamba (1998), ed è proprio così: il bambino non può farne a meno, è il suo modo per approcciarsi al mondo, per assimilare esperienze e di conseguenza imparare.

Ma…come può un bambino giocare se si trova costretto in un letto di ospedale, a causa di una grave malattia? Di fronte all’ospedalizzazione, le reazioni sono diverse, tendenzialmente caratterizzate da regressione, ovvero manifestazioni involutive del comportamento.

Cosa succede, quindi? Di fronte alla diagnosi, all’ambiente ospedaliero ricco di abitudini e di volti nuovi per lui, e di fronte al dolore percepito in prima persona, innanzitutto, ma anche osservato nei genitori, il bambino si sente spaventato e in pericolo e sente la necessità di richiedere l’attenzione degli adulti per cercare conforto e sicurezza; lo fa tornando ad una condizione di dipendenza: bambini che prima della diagnosi avevano imparato a camminare in modo autonomo, ora chiedono di essere portati in braccio; adolescenti che prima insistevano per essere lasciati in pace dai genitori, ora chiedono loro di aiutarli a vestirsi.

L’angoscia è lo stato d’animo più comune, che si traduce in comportamenti quali il rifiuto di dormire, esplosioni di rabbia e aggressività verso i genitori. Ci sono bambini che reagiscono in maniera attiva e altri in maniera passiva: i primi si disperano piangendo e piagnucolando, gridando e opponendosi fermamente alle terapie cercando di aggrapparsi ai genitori per non doversi sottoporre alle medicazioni, mentre i secondi tendono a dormire eccessivamente, perdere l’appetito, perdere l’interesse generale nei confronti delle persone e delle situazioni e comunicare di meno.

Di fronte a questi vissuti, ci si chiede come possa un bambino avere voglia di giocare. Eppure abbiamo visto prima quanto sia fondamentale il gioco nella vita di un bambino, e probabilmente all’interno del contesto ospedaliero l’attività ludica assume un’ulteriore importanza, in quanto è uno dei pochi spazi in cui il bambino può collocare ed esprimere le proprie esperienze di paura, angoscia e dolore. Infatti egli non è in grado, come un adulto, di comunicare in maniera discorsiva i propri stati d’animo, distinguere il dolore fisico da quello mentale e raccontare a parole in modo preciso cosa prova. È difficile per un adulto, figuriamoci per un bambino! Ma con il gioco, tutto è possibile. Il gioco infatti è un’attività in cui il bambino si sente competente e libero di esprimersi. Ed è proprio questa una delle strade per affrontare la malattia, perché è uno spazio in cui le fantasie e le paure del bambino possono essere espresse e rielaborate. Un bambino che non gioca è un individuo la cui capacità di accettare e rielaborare l’angoscia e la paura è momentaneamente bloccata.

Quindi, come e perché giocare in ospedale? Per ritrovare sicurezza e serenità in un ambiente che al bambino appare nuovo, sconosciuto e ricco di rigide regole da rispettare. Per incontrare l’Altro, che può diventare occasione di confronto. “Quando venni qui per la prima volta, pensai che sarebbe stato terribilmente noioso stare a letto tutto il giorno. E in effetti è noioso, ma lo è meno di quanto pensassi…perché ho scoperto che ci sono altri bambini, alcuni della mia età. Ho fatto amicizia con una bambina e quando posso vado a cercarla e giochiamo insieme, parliamo… il tempo sembra passare più velocemente quando stiamo insieme” (testimonianza di una ragazzina di 12 anni, tratta dall’articolo “Children’s experiences of Hospitalization” di Imelda Coyne).

È importante per un bambino giocare in ospedale anche per affermare la voglia di vivere e reagire al meglio di fronte alla malattia, stimolando le risorse positive dell’individuo, perché il gioco è un piacere, un momento e uno spazio all’interno dei quali il bambino può tornare ad essere veramente un bambino e non un paziente ospedalizzato. Nel gioco, egli non è più un giovane individuo che ha dovuto imparare precocemente il funzionamento dell’istituzione “ospedale” e non quello della scuola, che conosce più infermieri e medici che coetanei, che è più a contatto con materiale sanitario che con giocattoli, che è costretto in uno spazio chiuso e limitato piuttosto che libero di divertirsi in un parco giochi, volare sull’altalena o salire su un scivolo, giocare con la palla o nella sabbionaia.

Vedendolo giocare, l’adulto si ricorda che quel piccolo paziente che si sottopone a medicazioni e terapie e che lotta ogni giorno per la vita, è in fondo un bambino, con i bisogni e le esigenze proprie dell’infanzia. Proprio per questo, l’adulto (educatore, genitore o infermiere) che gioca con lui ha l’importante compito (e sfida) di “riattivare in sé, nonostante tutto, l’insieme delle capacità ludiche (inventiva, fantasia, creatività) per consentire al paziente di riconoscerle e riattivarle anche in se stesso” (Capurso).

Interessante a questo proposito è partire dalla situazione contingente, dagli oggetti che i bambini trovano in ospedale, e stimolare la loro creatività e la fantasia, costruendo qualcosa di nuovo e di diverso; in questo modo si potrebbero rendere meno ostili alcuni degli strumenti che più si incontrano in un’esperienza di ricovero.

Proprio per questo sono stati inventati giochi di familiarizzazione e di trasformazione degli oggetti sanitari che più comunemente vengono usati, di modo da chiarire in maniera semplice ed efficace il loro utilizzo, cercando di fugare le paure dei bambini legate alla non conoscenza degli stessi. Inoltre la capacità di trasformare e vedere le cose da un punto di vista diverso, più a misura di bambino, può essere la carta vincente per affrontare la quotidianità in ospedale. Siringhe che diventano api o farfalle che volano in giro, scatole di medicinali che diventano le casette di un villaggio, abbassalingua che truccati con cotone e garzette diventano i personaggi di una storia, guanti gonfiati che diventano simpatici galletti. In fondo, è proprio vero che “Tutto col gioco, niente per gioco” e ogni cosa diventa possibile, anche far sorridere un bambino malato.

 

Bibliografia:

  • (A cura di) Capurso M. (2001). Gioco e studio in ospedale. Trento: Erickson.
  • Coyne, I. (2006). Children’s experiences of hospitalization. Journal of Child Health Care, 10 (4) 326–336.
  • Koukourikos, K., Tzeha, L., Pantelidou, P., Tsaloglidou, A. (2005). The importance of playing during hospitalization of children. Mater Sociomed, 27(6): 438-441.

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