Articolo di Francesco Latini

 

Quando devo spiegare a qualche amico delle cosiddette “hard sciences” che la psicoanalisi è sostanzialmente una “talking cure”, una terapia fondata sulla parola, questo giustamente tende a storcere il naso. Come dargli torto, d’altra parte? Oggi imponenti sono gli sforzi per ricondurre la sofferenza psichica ad una problematica di ordine meramente neurobiologico: sei depresso? Sei ansioso? Evidentemente hai qualche problema a livello neurotrasmettitoriale, prenditi una pillola e passa la paura. Di solito, mi piace rispondere con un piccolo esperimento mentale:

<< Prova ad immaginare questa scena: sei te con la tua fidanzata o con la ragazza che ti piace, solo te e lei, faccia a faccia. Bene, ora visualizza il suo volto, i suoi occhi, la sua bocca. Ora lei ti dice queste 4 parole, solo queste: “io non ti amo”. Come ti senti? Rispetto a prima, come sono i tuoi livelli di serotonina? >>

Per quanto banale e perfettibile, l’esempio mi serve solo per dimostrare che le parole possono avere un impatto devastante, soprattutto quando vanno a pizzicare certe corde. Ovviamente non voglio banalizzare la sofferenza di chi, per effettive alterazioni neurobiologiche, trova nei farmaci un viatico formidabile, ma vorrei evidenziare che ci sono casi in cui la sofferenza psichica non origina primariamente dal biologico ma piuttosto da un’offesa dell’esistenza e, in questo caso, i farmaci possono rappresentare una “stampella” ma non certamente il trattamento d’elezione.

A partire da questo esempio, vorrei quindi approfondire con voi una delle esperienze più dure dell’esistenza umana, cioè l’essere ostracizzati, esclusi, rifiutati o il perdere il legame intimo con l’Altro perché ci abbandona oppure muore.

Come sottolinea Williams (2009), l’uomo è un animale profondamente sociale che per molti anni dopo la nascita continua ad essere totalmente dipendente dai genitori e che, anche nella vita adulta, trova nel gruppo un elemento fondamentale per la sopravvivenza: non deve quindi sorprendere che, da un punto di vista evolutivo, si sia adattato affinché tali esperienze generino profondi vissuti di rabbia, tristezza ed ansia, così da spingerlo a ricercare in ogni modo la connessione e salvaguardare i bisogni psicologici fondamentali di appartenenza (cioè costruire e mantenere relazioni di buona qualità in modo tale da far parte di ed essere accettati da un gruppo), autostima (un indicatore del nostro grado di inclusione sociale piuttosto che una generica autovalutazione positiva di sé), controllo (cioè la credenza di poter esercitare un controllo sull’ambiente e di produrre risultati desiderati) ed esistenza significativa/essere riconosciuti (cioè la credenza di avere uno scopo e di essere degni d’attenzione).

Il dolore “sociale” è quindi un’esperienza molto intensa, così intensa che in diverse lingue del mondo viene descritta utilizzando espressioni generalmente riservate al dolore “fisico” (es. “ho il cuore spezzato”, “ha ferito i miei sentimenti”). Ma si tratta di semplici metafore? Secondo diverse ricerche, no: le persone vivrebbero realmente un dolore simile a quello fisico, in quanto entrambe le esperienze poggerebbero su un substrato neurobiologico e neurale parzialmente condiviso (Eisenberger, 2012).

In particolare, per quanto riguarda il substrato neurobiologico, già Herman e Panksepp (1978) dimostrarono che la somministrazione della morfina – un agonista dei recettori oppioidi μ largamente utilizzato nella terapia del dolore per i suoi effetti analgesici – era in grado di ridurre nei cuccioli di porcellino d’india il pianto legato alla separazione dalla madre mentre la somministrazione di nolaxone – un antagonista dei recettori oppioidi μ – comportava un incremento delle vocalizzazioni di frustrazione.

Studi su altre specie di mammiferi hanno poi confermato queste osservazioni, evidenziando quindi come sostanze che agiscono sui recettori oppioidi μ giocano un ruolo cruciale nell’alleviare sia il dolore fisico che sociale (Eisenberger, 2012). Inoltre, uno studio genetico condotto sugli umani rispetto alle differenze individuali nelle versioni possedute del gene per i recettori oppioidi μ ha confermato che gli individui dotati della versione associata ad una maggiore sensibilità al dolore fisico sono anche quelli più sensibili al dolore sociale (Way, Taylor, & Eisenberger, 2009).

Per quanto riguarda il substrato neurale, invece, è importante sottolineare che sebbene il dolore venga vissuto come un’esperienza unitaria in realtà presenta una componente sensoriale che ci informa sull’intensità e sulla provenienza dello stimolo doloroso – supportata dalla corteccia somatosensoriale (S1, S2) e dall’insula posteriore (PI) – ed una componente emotiva che ci informa invece su quanto è spiacevole o fastidioso lo stimolo doloroso – supportata dalla corteccia cingolata anteriore dorsale (dACC) e dall’insula anteriore (AI).

Nel corso degli anni la ricerca non solo avrebbe dimostrato che situazioni di lutto (come la morte di un congiunto piuttosto che un aborto) comporterebbero un’attivazione della componente affettiva del dolore ma, grazie ad una recente ricerca fMRI di Kross e colleghi (2011), emergerebbe che situazioni di rifiuto sociale molto intense – come il rivivere una recente rottura sentimentale indesiderata – sarebbero capaci di attivare sia le aree affettive che sensoriali del dolore.

Essere rifiutati, esclusi o lasciati provoca una frattura interiore, un suono ed un dolore molto simili allo spezzarsi delle ossa. Comunque, nonostante le forti similarità, dolore fisico e sociale presentano anche delle differenze: ad esempio, le persone tenderebbero a preferire il primo al secondo.

Secondo William James questo sarebbe dovuto al desiderio di chi viene escluso ed ignorato di ricevere una qualche forma di attenzione, anche se negativa; Chen e colleghi (2008) hanno però proposto anche un’altra ragione: il dolore fisico sarebbe fugace e rivissuto con difficoltà, quello sociale potrebbe invece essere riesperito e potenzialmente durare per sempre. In effetti, provate a ricordarvi di quel giorno in cui vi siete rotti un braccio e di quello in cui siete stati rifiutati da qualcuno: quale evento vi risulta più vivido e doloroso?

La rottura fisica di un osso è un evento che, dopo poco, sbiadisce ed è difficile da rivivere… la rottura di un legame rimane invece impressa più a lungo ed il dolore che ne scaturisce può rimanere invariato per molto, moltissimo tempo. Quanti amici conoscete che sembrano essere rimasti “congelati” ad una relazione oramai finita, che continuano a rimuginare su un rapporto oramai cessato? Per quanto gesso possiate mettergli attorno, non troveranno alcun giovamento. Queste differenze sono evolutivamente adattive o frutto di un difetto nell’architettura complessiva del nostro cervello?

Ciò rimane da chiarire: da una parte, la possibilità di riflettere vividamente su un’esperienza socialmente dolorosa può essere utile per evitarla nel futuro ma, dall’altra, può condurre a problemi psicologici ed emotivi che potrebbero tormentare l’individuo per tutto l’arco della sua vita.

(Come perdere peso in 4 semplici mosse: attenzione alla terza.)

BIBLIOGRAFIA:

– Chen, Z., Williams, K. D., Fitness, J., & Newton, N. C. (2008). When hurt will not heal: Exploring the capacity to relive social and physical pain. Psychological Science, 19(8), 789-795.

– Eisenberger, N. I. (2012). Broken Hearts and Broken Bones A Neural Perspective on the Similarities Between Social and Physical Pain. Current Directions in Psychological Science, 21(1), 42-47.

– Kross, E., Berman, M. G., Mischel, W., Smith, E. E., & Wager, T. D. (2011). Social rejection shares somatosensory representations with physical pain. Proceedings of the National Academy of Sciences, 108(15), 6270-6275.

– Panksepp, J., Herman, B., Conner, R., Bishop, P., & Scott, J. P. (1978). The biology of social attachments: Opiates alleviate separation distress. Biological psychiatry, 13(5), 607-618.

– Way, B. M., Taylor, S. E., & Eisenberger, N. I. (2009). Variation in the μ-opioid receptor gene (OPRM1) is associated with dispositional and neural sensitivity to social rejection. Proceedings of the National Academy of Sciences, 106(35), 15079-15084.

– Williams, K. D. (2009). Ostracism: A temporal need-threat model. Advances in Experimental Social Psychology , 41, 275-314. http://doi.org/10.1016/S0065-2601(08)00406-1

 

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