Circa due mesi fa a Lavagna, in Liguria, un ragazzo di quindici anni si è suicidato in seguito a un’irruzione in casa da parte delle Guardie di Finanza. Era stato trovato in possesso di droga (10 grammi di hashish) dai finanzieri, chiamati dai genitori, preoccupati da quello che sembrava essere un periodo di turbamento del ragazzo.

È chiaro come questa storia abbia diversi aspetti che impressionano tanto. La chiamata alle forze dell’ordine da parte dei genitori, l’irruzione, il suicidio. È difficile scrivere su questo triste evento, troppa sofferenza e troppa ignoranza (da parte mia) circondano l’accaduto per poter davvero esprimersi.

Tuttavia, penso che sia importante parlare di quanto accaduto, perché per quanto fuori dall’ordinario ho l’impressione che rifletta una condizione di disagio e di difficoltà in realtà molto diffuse. È incredibile come, allo stato delle conoscenze attuale, ancora oggi siamo così privi di strumenti, da un punto di vista individuale, familiare, sociale e territoriale per far fronte ai mille colori e alle mille sfaccettature della sofferenza umana.

La chiamata ai Finanzieri da parte dei genitori ha un forte significato. Di esasperazione, di sentimento di inadeguatezza, di disperata richiesta di aiuto a qualcuno che possa sapere come fare, come far fronte a problemi che sembrano di portata troppo grande per essere affrontati, accettati e sentiti.

L’uso di cannabis o della droga in genere diventa quindi un simbolo, un metodo comunicativo, un capro espiatorio che permette di dare un nome e una faccia a tutto il dolore sommerso e non dicibile. Focalizzarsi sul comportamento “deviante” permette di scansare il significato profondo che esso porta con sé.

È una forma di esternalizzazione del problema. Il messaggio implicitamente trasmesso è che il problema è la marijuana. È contro la droga che bisogna lottare.

In realtà, se osserviamo da un’altra prospettiva, il sintomo svolge anche una funzione adattiva. Esso può essere un campanellino di allarme che richiama la nostra attenzione verso qualcosa che forse merita di essere visto, di essere approfondito, e cui origine spesso e volentieri è da ricercare altrove. Dentro di noi, all’interno dei nostri legami, dei nostri vissuti.

La lotta contro il sintomo, l’identificazione con esso, rischia di perpetuare il problema, offuscando tutto ciò che si cela dietro. Non intendo dire che non dobbiamo preoccuparci di trattare il sintomo, soprattutto quando esso può avere degli effetti nocivi. Penso però che sia importante considerarlo come una chiave di accesso per varcare mondi interni, e per cercare di vedere qualcosa che non è stato visto fino allora.

A volte questo compito è difficile. La paura, l’allarme, il sentimento di urgenza, inevitabili in questi casi, ci rendono parzialmente ciechi, ed è in questo contesto che può rivelarsi particolarmente utile l’aiuto di una figura professionista, meno emotivamente coinvolta, che possa aiutarci a mettere a fuoco aspetti a cui ci siamo abituati. Uno sguardo esterno, che ci offra una prospettiva nuova, e che ci guidi nel faticoso processo di identificazione e scioglimento di nodi aggrovigliati e confusi.

Analogamente, su un piano sociale, è necessario promuovere a facilitare l’accessibilità a figure di riferimento psicologiche nelle scuole, negli ospedali, in tutti i luoghi ricchi di densità umana, e un’educazione psicologica già dai primissimi anni di scuola.

Nel frattempo, è possibile sfruttare le risorse già esistenti. In Italia, il sistema sanitario pubblico offre accesso gratuito ai Consultori Familiari. Il consultorio familiare è una tipologia di struttura sanitaria istituita con lo scopo di intervenire in sostegno alla famiglia o al singolo che vi faccia ricorso. Esso può quindi essere un primo luogo di contatto e di richiesta di aiuto in situazioni di confusione e di difficoltà (link al sito che fornisce una lista dei comuni italiani con i consultori familiari, indirizzo e numero di telefono rispettivi: http://www.comuni-italiani.it/salute/consultori.html).

In quest’ottica, quindi, l’esperienza del sintomo è la manifestazione di una parola perduta. Ecco perché penso sia così importante, a un livello sia individuale, sia familiare, sia sociale, non rinforzare la funzione comunicativa del sintomo, e rispondere invece a esso con una modalità altra che pur riconoscendolo, vada oltre cercando di ridonare voce a una comunicazione soffocata.

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