<Ora che mi ha insegnato queste cose, farò del mio meglio per dimenticarle.>

<Per dimenticarle?>

                                                                                                           <Vede> mi spiegò <secondo me, il cervello d’un uomo, in origine, è come una soffitta vuota: la si deve riempire con mobilio di nostra scelta. L’incauto v’immagazzina tutte le conoscenze che si trova tra i piedi: le nozioni che potrebbero essergli utili finiscono per non trovare più spazio o, nella migliore delle ipotesi, si mescolano e si confondono con una quantità d’altre cose, cosicché diviene assai difficile reperirle. Viceversa lo studioso accorto seleziona accuratamente ciò che immagazzina nella soffitta del suo cervello. Ci mette solo gli strumenti che possono aiutarlo nel lavoro, ma di quelli tiene un vasto assortimento, e si sforza di sistemarli nell’ordine più perfetto. È un errore illudersi che quella stanzetta abbia le pareti elastiche e possa ampliarsi a dismisura  […].>                                                         

(Sherlock Holmes ne “Lo studio in rosso” di Arthur Conan Doyle)

Veniamo anche noi alle questioni pratiche: come accrescere le proprie competenze nell’insegnamento e come migliorare la didattica? Iniziamo col dire che la teoria, ove possibile, va assottigliata, ma come? Non si tratta di certo di sacrificare la conoscenza di importanti concetti.

Quello che però ho spesso notato è la generale difficoltà dei docenti di saper discernere tra argomenti e nozioni centrali e fondamentali della materia e quelli più marginali: ricordo che all’esame di “storia della psicologia” il professore mi aveva posto la domanda: qual è l’anno in cui è uscita la seconda edizione […] (non ricordo il titolo del volume) scritta da Freud? Mi è difficile comprendere l’utilità applicativa di domande di questo tipo.

Tale difficoltà discriminativa cagiona la quantità ridondante ed eccedente di materiale da imparare richiesto poi agli esami, e la selezione delle domande che vertono su argomenti a mio parere poco rilevanti (un altro docente di mia conoscenza poneva quesiti di natura biografica su 60 autori psicoanalitici, nonostante si dovessero studiare quattro volumi di teoria psicodinamica).

Mi pare infatti che ci si illuda ancora che imporre un carico di studio “tanto” corrisponderà a “tante” conoscenze acquisite. In realtà quantità sovrabbondanti di conoscenze da apprendere non verranno ricordate per lungo tempo, e saranno memorizzate in maniera confusa e poco approfondita.

Il suggerimento è quindi di fare meno ma meglio, coordinandosi con gli altri docenti sugli argomenti da trattare, e selezionando quelli che si reputano veramente importanti, ma soprattutto è fondamentale preoccuparsi di sviluppare gli argomenti più recenti, e non fermarsi alle parole dei primi autori: per quanto riguarda l’ambito clinico gli studenti imparano a memoria Freud, conoscono benissimo l’ABC di Ellis, ma imparano poco gli sviluppi odierni delle terapie dinamiche e cognitivo-comportamentali, hanno sentito poco parlare di costruttivismo e non immaginano nemmeno cosa sia una terapia gestaltista, bioenergetica o di stampo umanistico.

L’idea quindi è di assottigliare da una parte per approfondire dall’altra. Darsi dei limiti può essere un iniziale buon punto di partenza: facendo un discorso puramente quantitativo, e quindi non esaustivo, prendendo come punto di riferimento un esame di 8 crediti, potrebbe indicativamente essere sufficiente inserire nella bibliografia per l’esame un libro, massimo due più articoli di approfondimento. Ciò non significa che non debbano più esistere gli “esamoni”; un po’ di sano “sbattimento” non fa male a nessuno.

Un’innovazione interessante in questo senso è quella di utilizzare le cosiddette papers (molto usate all’estero), ovvero elaborati scritti di circa 6 o 10 pagine, su un tema specifico che il professore correggerà e a cui assegnerà un voto da sommare all’esito finale dell’esame.

Le opportunità che offrono le papers sono di meglio distribuire la mole di lavoro nel corso delle lezioni e di offrire la possibilità di formulare un contributo critico sull’argomento, aspetto assai fondamentale nel processo di consolidamento dei concetti e completamente caduto in disuso oggi.

Riportando sempre una mia esperienza, un mio professore aveva chiesto alla classe di analizzare un articolo scientifico e operare un confronto con quanto lì riportato e ciò che invece era scritto in un capitolo del libro. Risultato: il capitolo comunque doveva essere analizzato, ma in più era necessario anche comprenderlo in modo meno passivo e più interpretativo. Quel capitolo non veniva poi più richiesto all’esame scritto.

Un’altra opzione è quella di dare il compito di realizzare in gruppo presentazioni in powerpoint (possibilmente due lavori di gruppo o presentazioni individuali per corso) su argomenti specifici da presentare poi alla classe.

Nel caso in cui il numero degli studenti sia parecchio elevato è possibile che il professore richieda la video-registrazione dell’esposizione che gli verrà consegnata tramite chiavetta o che sarà caricata sulla piattaforma e-learning del corso di studi, oppure ancora, in assenza di quest’ultima, si potrebbe provvedere a creare un gruppo Facebook privato o un profilo YouTube del corso ove inserire le presentazioni e renderle visibili al gruppo classe.

I gruppi dovrebbero andare dalle 5 alle 10 persone massimo per non rendere il lavoro troppo concentrato o troppo dispersivo. Ciò permetterebbe non solo di acquisire le conoscenze sull’argomento, ma anche di sviluppare importanti capacità di lavoro in team e allenare le abilità espositive.

Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante se si considera che nel mondo del lavoro è in crescita l’esigenza di saper argomentare specifiche questioni in maniera dinamica, più che saper esporre grandi quantità di informazioni e rispondere alle classiche domande come se si stesse sostenendo un esame.

Altra importantissima e interessante innovazione che potrebbe migliorare la qualità della didattica nell’università è il metodo delle flipped classroom (o classi capovolte): a casa lo studente segue le lezioni e in aula svolge l’attività di studio approfondito.

Nel concreto questo significa che i professori forniscono i video delle lezioni che gli studenti si guardano a casa, assumendo tutti i vantaggi di poter riprendere e riguardare le lezioni quante volte gli è necessario.

 

Le ore in aula, diversamente, sono investite per sviluppare l’apprendimento attivo, cioè favorendo dibattiti e discussioni guidate dal professore, riprendendo gli argomenti che sono risultati più difficili da comprendere, partecipando a conferenze tenute da esperti (un’altra mia professoressa aveva invitato per tutti i tre mesi di lezione numerosi psicologi attivi in diversi settori, rispondendo così alla nostra esigenza di comprendere meglio cosa significava nel concreto lavorare in quelle aree, oltre che a scoprire opportunità lavorative mai prese in considerazione prima), sviluppando progetti di ricerca o di approfondimento tematico sia in gruppo che singolarmente, oppure ancora entrando nel vivo della materia con esperienze più pratiche e applicative, ove possibile direttamente sul campo.

Se penso ai corsi di laurea in psicologia mi viene in mente che studiando clinica si possono spendere molte più ore nel discutere casi clinici e insegnare quindi a formulare diagnosi esaustive e corrette, oppure si potrebbe insegnare a somministrare un vero test, o presentare alcune tecniche di lavoro operativo.

Tutte queste attività permettono il tanto fatidico riscontro con la realtà applicativa della materia e alimentano l’interesse negli studenti, che risulterebbero più coinvolti e meno passivi nel processo di apprendimento.

Se sviluppate a dovere, tali attività consegnano nelle mani dei laureati un bagaglio di conoscenze e soprattutto di competenze meglio spendibili sul campo. Si badi che adoperare questa metodologia rende possibile applicare tutte queste idee su gruppi classe numerosi.

Infine, dando più spazio alla componente applicativa, si potrebbe sopperire a quella problematica che era stata enunciata a gran voce durante il dibattito con i rettori delle università milanesi: lo scarso legame tra università e imprese/mondo del lavoro.

Infatti, sarà per forza di cose necessario potenziare questo collegamento permettendo alle stesse imprese di avere accesso all’università, ed entrare in contatto con gli studenti, proponendo conferenze, workshop ed esperienze lavorative nell’interesse di assoldare studenti meritevoli.

Mi preme sottolineare che la pratica e le metodologie per importarla nell’università non rappresenterebbero un ripiego alla teoria, una serie di mezzucci per rendere più simpatiche e divertenti le lezioni. La pratica è un vero e proprio mezzo per comprendere il corpus di conoscenze che compongono una materia.

Non esiste altra strada, e già se ne sono accorte alcune università italiane, per lo più private, che hanno fatto delle attività didattiche esperienziali il loro punto di forza. Ma questo aspetto è già realtà per tutti quei percorsi di alto livello come i master che si interessando proprio della componente applicativa della materia.

Altri aspetti critici riguardano alcune scelte attuate dai professori: molti di essi decidono di non svolgere gli esami parziali, scelta che se fosse invece adottata permetterebbe allo studente di poter ulteriormente suddividere il carico di materiale, potendolo così organizzare e preparare al meglio, senza eccessivo stress. Lo stress infatti è risultato particolarmente elevato tra gli studenti italiani, a partire già dalle scuole medie.

Vantiamo infatti gli adolescenti più stressati d’Europa, e come numerose ricerche hanno già dimostrato, lo stress riduce la capacità di elaborare le informazioni. Se i professori spalmassero il loro materiale nell’arco dei mesi di lezione, come suggerito prima attraverso le papers, le attività pratiche e i parziali o al limite i preappelli, gli studenti avrebbero anche meno probabilità di uscire fuori corso e più tempo libero per dedicarsi ad altro.

Ricordo anche, che mentre alcuni paesi europei si sono organizzati per far coincidere la fine delle lezioni con la fine degli esami, da noi invece funziona che, nella maggior parte dei casi, terminate le lezioni incominciano gli esami e terminati gli esami incominciano le lezioni. Avanti così in un ciclo che persiste per almeno 3 o 5 anni. Non c’è pausa e quel che è peggio è che sappiamo perfettamente che un po’ di riposo fa bene.

Il tempo libero a disposizione può essere investito in molte attività proficue come un lavoro per sostenersi economicamente o per potersi permettere viaggi ed esperienze di socializzazione, oppure dedicarsi allo sviluppo di progetti professionali e culturali o ancora praticare sport (voglio però ribadirlo, consapevole che oggi concederselo sembra suscitare un forte senso di colpa: anche il riposo è proficuo, sono numerosi i professionisti che sostengono di aver raggiunto il successo grazie al riposo, ai tempi morti e alle attività hobbistiche non produttive).

Tutte queste sono delle esigenze e non degli extra da perseguire “se rimane tempo”, poiché rappresentano dei bisogni tipici ed importanti di tutta la fascia d’età di noi ragazzi universitari.

 

Ultimo punto sul quale mi va di soffermarmi è la scelta dei libri per l’esame. Molti professori scelgono di scrivere dei volumi che sono particolarmente coerenti con il loro programma ma che sono di frequente troppo teorici: ahimè questi volumi sono spesso veri e propri elenchi di modelli, dati e nozioni.

Il Prof. Massimo Recalcati affermava in un suo celebre intervento, che non ci si può limitare alle slide quando si tiene una lezione, ma è necessario che un bravo insegnante sappia utilizzare un libro e che sappia trasformarlo in un corpo, di modo che gli studenti chiedano, come in un atto d’amore: Encore, encore! Io però leggendo i loro volumi, più che chiederne ancora mi sentivo turbato dalla loro pesantezza.

Esistono i manuali ed esistono i libri, contengono entrambi le stesse informazioni ma sono sviluppate in modo molto diverso: nelle pagine di questi ultimi gli autori trattano gli argomenti prestando particolare attenzione alla pratica e al modo in cui si sono manifestati i vissuti nel loro sviluppo professionale, descrivendo anche con un linguaggio più esperienziale ed emotivo piuttosto che meramente teorico e nozionistico, i concetti che desideravano far passare.

Per gli esperti del settore sto parlando della differenza tra leggere un manuale di teoria psicoanalitica e un libro di Freud, tra il prendere in mano il manuale di psicopatologia e aprirlo sul capitolo dedicato ai disturbi post-traumatici da stress e leggersi o commentare in aula “Il corpo accusa il colpo” dello psichiatra Van Der Kolk.

Ora mi rendo conto che i manuali di teoria siano molto più semplici da gestire di un testo originale, in quanto permettono di trattare in maniera rapida e sintetica una montagna di concetti, ma ritengo che comunque non possano considerarsi esaustivi e sufficienti.

Potrebbe dunque essere interessante ed utile sviluppare un progetto parallelo al Book in Progress ma rivolto all’ambito accademico universitario, cioè creare una rete di collegamento tra professori che, mettendo in comune le loro competenze ed esperienze, scrivano dei libri accademici più attenti alle esigenze degli studenti.

Logico che mettere in atto tutte queste proposte significa dover investire con maggiore impegno sugli studenti e dedicare molto più tempo al ruolo di docente e meno a quello di ricercatore.

Inoltre sarà necessario abbandonare la vecchia noiosa ma comoda lezione frontale, che comoda non lo è solo per i professori, ma anche per gli stessi studenti, i quali sono al tempo stesso vittime e carnefici della propria condizione: sono vittime in quanto hanno subito anni e anni di educazione scolastica depersonalizzante e di duro lignaggio, col risultato che gli è stato impartito il metodo del mulo; ma sono anche carnefici poichè inconsapevoli di ciò che possono ottenere e perché hanno scelto di adeguarsi al sistema educativo vigente, rinunciando a pretendere qualcosa di più per sé stessi.

L’impressione è che si siano disillusi, e che vivano l’università accettando passivamente la statica insofferenza che si portano appresso nel loro moto inerte verso la laurea.

Per concludere, mi rendo conto di aver solamente smosso un discorso che andrebbe ampliato, considerando anche altri interventi di natura più strutturale e legislativa. Inoltre le proposte indicate andrebbero calate nella realtà di ogni ateneo e di ogni corso di laurea, al fine di adattarle allo specifico contesto (probabilmente inserire la partica nella facoltà di lettere e filosofia non avrebbe lo stesso senso che se fosse introdotta in quella di economia, sebbene, considerando i tempi che corrono, forse, anzi quasi sicuramente, quest’affermazione è errata).

Mi interessa quindi trasmettere con questo articolo tale messaggio: che l’università abbia al centro dei suoi interessi gli studenti e i loro bisogni professionali concreti (oggi tutti i rankings mondiali che valutano le università non hanno tra i loro parametri una scala di stima della qualità della didattica).

Ho criticato molto i docenti, senza però avere come obiettivo quello di svalutarne il ruolo, ma piuttosto di rivolgergli l’implicita richiesta di far fiorire un clima di collaborazione sul piano umano e professionale che ormai sembra essersi perso.

Per fortuna, dal mio punto di vista, per molti di essi si tratta semplicemente di aggiustare il proprio metodo di insegnamento e di ritrovare quello spirito passionale che si esprime nel desiderio di veder crescere i propri corsisti; mentre per i restanti sarebbe necessario un percorso di consapevolezza volto a ridefinire i significati personali che essi hanno associato al proprio ruolo.

A tutti i professori dedico questo intervento del Prof. Massimo Recalcati che disquisisce sull’importanza dell’incontro tra insegnante e allievo e dell’erotismo che scaturisce nel processo di apprendimento che da questa relazione è prodotto, sperando che riescano a soddisfare quel bisogno di noi studenti di volerne “Encore, encore”.

Cosa provate adesso?

 

Per approfondire:

  • Flipped classroom

http://flipnet.it/

Sams Aaron & Bergmann Jonathan, 2012. Flip Your Classroom: Reach Every Student in Every Class Every Day

Tucker Bill, 2012. The flipped classroom. Education next

Bishop, J. L., & Verleger, M. A. (2013, June). The flipped classroom: A survey of the research. In ASEE National Conference Proceedings, Atlanta, GA (Vol. 30, No. 9)

Herreid, C. F., & Schiller, N. A. (2013). Case studies and the flipped classroom. Journal of College Science Teaching, 42(5), 62-66.

Maglioni Maurizio e Biscaro Fabio, 2014. La classe capovolta. Innovare la didattica con il flipped classroom

  • Book in Progress

http://www.bookinprogress.org/

  • Experiential Learning

Dewey John, 1938. Experience and Education

Kolb, D. A., 2014. Experiential learning: Experience as the source of learning and development. FT press.

  • Active learning

Meyers, C., & Jones, T. B. (1993). Promoting Active Learning. Strategies for the College Classroom. Jossey-Bass Inc., Publishers, 350 Sansome Street, San Francisco, CA 94104.

Johnson, D. W., Johnson, R. T., & Smith, K. A. (1998). Active learning: Cooperation in the college classroom. Interaction Book Company, 7208 Cornelia Drive, Edina, MN 55435.

  • Scuola e stress

http://www.corriere.it/scuola/medie/16_marzo_29/gli-studenti-italiani-piu-stressati-banchi-scuola-50cd2584-f592-11e5-a42a-1086cb13ad60.shtml

  • Altre risorse

https://www.coursera.org/

http://ocw.mit.edu/index.htm

http://www.raiscuola.rai.it/startLezioni.aspx

https://www.khanacademy.org/

http://sirkenrobinson.com/

https://www.ted.com/speakers/sugata_mitra

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