Ovvero: la storia di come un dolcetto possa salvare la tua ricerca.

Il mondo della ricerca è oggigiorno tremendamente complesso, variegato e pieno di inventiva. Ma non solo, chi di noi ambisce o sta perseguendo una carriera universitaria da ricercatore, sa bene che è anche estremamente competitivo, logorante e diciamocelo: noioso. Il mondo della ricerca idealizzato e perfetto che avevamo il primo anno di università (i bei tempi di quando al bar NON parlavi di quanto sia rognosa l’Anova multivariata) è presto crollato sotto i duri colpi della realtà: schiavismo, infinite ricerche bibliografiche, ore ed ore passate al computer ad analizzare dati e ben poche speranze di fare qualcosa di veramente personale, interessante ed innovativo (il sottopagato lo aggiungo solo per i poveri italiani, senza voler entrare nel merito della faccenda).

Una vita ben lontana da quella che si sognava agli inizi, fatta di scoperte mirabolanti, viaggi transoceanici per conferenze sensazionali e la possibilità di contribuire con le proprie idee ed intuizioni al progresso scientifico. Non che chi stia facendo il dottorato o sia nel mondo accademico non faccia, anche, queste cose, ma magari passare un anno intero a dare righellate ad un topo per fargli superare un ponte con dei sensori (TRUE STORY) non è esattamente quello che sognavamo di fare. Ma c’era un tempo, un paio di secoli or sono, in cui la ricerca era proprio come ce la immaginavamo i primi giorni di Università.

Nell’Ottocento si conducevano le ricerche più incredibili e sfrenate, spesso oltre i limiti della morale di allora e qualche volta anche oltre i confini di quella attuale (non so quale commissione etica approverebbe oggiogiorno di tagliuzzare il cervello di una persona solo per vedere “cosa succede”, vedi alla voce split brain). Erano i tempi in cui gli scienziati erano così pazzi da ispirare libri come Frankenstein e c’erano ancora da scoprire innumerevoli ed interessanti innovazioni che avrebbero cambiato il mondo in un posto migliore. Ad esempio che quella muffa sul grana che ogni volta gratti via con fastidio è in realtà penicillina, e oh, quella cazzo di muffa ne ha salvate di vite! Da non dimenticare il fatto che Flemming fosse inglese e quindi aveva a disposizione una incredibile vastità di campioni di formaggio ammuffito (solo chi ha condiviso il frigo con un inglese sa di cosa parlo).

Spesso le storie degli scienziati ottocenteschi sono incredibili quanto le loro scoperte, come ad esempio quella di Horace Wells. Egli è tra gli inventori della anestesia, e per dimostrarlo c’è perfino rimasto secco. Oggi come allora il riconoscimento nel mondo accademico era di vitale importanza, ma per fortuna oramai ci siamo tolti dai piedi gente come Edison, più abile a fare marketing e monetizzare idee rubate che fare scoperte da sé.

Il nostro povero Horace Wells stava studiando gli effetti narcotici del protossido d’azoto e del cloroformio per fini anestetici e come molti altri colleghi aveva iniziato a sperimentare le varie droghe prima su di sé e poi sui pazienti.

Un esempio eclatante di questa condotta, ai tempi considerata normale, è quello del chirurgo William Stewart Halsted (quello di The Knick per intenderci), che era diventano dipendente da cocaina a furia di testare i vari effetti della sostanza su di sé ma ne era brillantemente uscito passando alla morfina. Ciò comunque non gli impedì di inventare la mastectomia, oltre a lavorare e insegnare alla Johns Hopkins University, cioè al top (per esempi contemporanei tra gli neuroscienziati vedi alla voce Oliver Sacks, hippie, acidi, canne ed eroina).

Ben più sfiga capitò ad Horace Wells il giorno della presentazione della sua scoperta al mondo accademico. Perché a volte ti va di culo e scopri a buffo i neuroni a specchio come capitato a Rizzolatti (che stava facendo ricerca su tutt’altro e poi si è accorto che il neurone in cui aveva inserito l’elettrodo sparava a palla quando la scimmia vedeva qualcuno mangiare) o magari tornado a casa in bici, ti sale l’acido e scopri una nuova droga (come a Hofmann). Queste storie di “botte di culo nella scienza” le conosciamo tutti e ci sono di ispirazione, ma non dobbiamo dimenticarci a chi invece è andata di sfiga.

Quando Horace Wells fece la sua presentazione, sfortunatamente scelse un paziente troppo corpulento per la dose di anestetico che aveva a disposizione e la dimostrazione fallì miseramente. Ciò lo ostracizzò dal mondo accademico, con grande scherno e la nomea di imbroglione. Tipo quando stai difendendo la tesi e ti fanno notare che le analisi statistiche condotte sono completamente errate (di nuovo quella cazzo di Anova multivariata, mannaggia a lei) mentre il tuo professore fa finta di non conoscerti (TRUE STORY).

Il nostro povero Horace cadde quindi in depressione e per dimostrare di aver ragione tentò un atto decisamente estremo: si suicidò tagliandosi l’arteria femorale, però il furbetto prima si era sparato una quantità esagerata di cloroformio e morì indolore. Ironia della sorte (intendo più di: suicidarsi indolore, usando un anestetico che hai scoperto tu, il di cui mancato riconoscimento accademico ti porta alla depressione e al suicidio), pochi giorni dopo arrivò alla sorella una lettera dalla Francia che la informava che la società medica di Parigi sosteneva che “ad Horace Wells spetta la gloria di avere per primo usato il gas come narcotico”, confermando la sua ricerca e ridandogli il credito pubblico perso precedentemente.

Inutile aggiungere che come al solito arrivò l’Edison di turno, in questo caso di nome William Green Morton, che gli fotté l’idea (ma la applica con l’etere). Ovviamente si scoprì solo molto tempo dopo che l’idea di usare del gas come anestetico non era sua. Adesso gli scienziati hanno smesso di accoltellarsi a vicenda grazie ad una cosa chiamata brevetto.

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