Articolo di Francesco Latini

Esistere (Cosmo)

Una domenica di sole.
Le linee rette dell’autostrada.
La campagna che scorre lenta,
un furgone mi porta a casa.
Sento il rombo e le vibrazioni,
è un acquario lo spazio esterno.
Caldo privo di emozioni,
un utero materno.
E non mi sembra di esagerare quando penso di morire, per un attimo, sul palco.
Non è semplice, non è importante ciò che accade mentre canto, ma mi sembra di sparire.
Nonostante tutti questi pensieri oggi è meglio di ieri.
Ora è certo che ti stai avvicinando senza fare rumore.
Ti ho intravisto come dentro ad un film, giuro, di fantascienza.
E volevo registrare il tuo cuore, ma non ho fatto una mossa.
Tu non ci sei ancora, ma già esisti un po’
Tu non ci sei ancora, ma già esisti [x 3]
Proverò a spiegarti perché mi piace quando piove e c’è il sole.
Ti accompagnerò attraverso i contrasti che mi riempiono il cuore.
E vivrò le tue scoperte più grandi, tutti i giorni migliori.
Ho lottato contro ogni nostalgia per prepararmi al tuo arrivo.
Tu non ci sei ancora, ma già esisti un po’
Tu non ci sei ancora, ma già esisti [x 4]
ma già esisti
ma già esisti
Sento il rombo e le vibrazioni,
è un acquario lo spazio esterno.
Caldo privo di emozioni,
un utero materno.

 

Suona la sveglia, un suono calmo ma inarrestabile. Come la goccia che, di per sé innocua, alla fine scava la roccia, così la mia sveglia alla fine mi strappa dal buio e dal sonno. Guardo lo schermo scintillante dello smartphone, un ruvido cazzotto per gli occhi. Ore 7:00. Anche oggi tirocinio. Mi lavo, mi vesto, mi preparo un caffè. Meglio la caffettiera da tre, meglio andare sul sicuro. È tardi, guardo fuori dalla finestra: dopo quasi un mese di grigio pallido, finalmente un cielo azzurro. Prendo al volo un biscotto e mi infilo l’armamentario invernale. Cuffiette. Chiavi. Chiudo la porta. Mi lancio nel mondo esterno.

Mentre con passo sostenuto mi avvicino alla stazione ferroviaria, con le dita scorro lo schermo dello smartphone per scegliere una canzone. Alla fine, il pollice si posa sul primo album di Cosmo (all’anagrafe Marco Jacopo Bianchi): come molti della mia generazione, il germe dell’indie italiano si è prima introdotto in modo strisciante ed asintomatico, rimanendo incubato nel corpo aspettando solo il momento più propizio per manifestarsi.

Iniziò tutto quasi per caso, ascoltando e shazammando uno strano pezzo di Calcutta alla radio (“Frosinone”) mentre tornavo da una serata al bar con gli amici. Fu poi il periodo delle frasi a mezza bocca, delle frasi rompi-ghiaccio o svolta-argomento tipo “che per caso lo conosci? Che per caso hai sentito qualche suo pezzo?”. Una volta accumulata un’adeguata massa critica, fu la volta delle canzoni cantate nell’intimità della propria casa mentre si puliscono i pavimenti, delle canzoni cantate quando si è brilli, delle canzoni suonate con gli amici con una chitarra scordata. Alla fine, sono finito ad ascoltare solo quello. Sono colpevole.

Ma c’è qualcosa in questi testi che mi scuote, testi in grado di sezionare come bisturi le esperienze del quotidiano, di esaltare l’eleganza di un gesto, di cantare le angosce e le speranze di una generazione, la generazione che non ha visto il Muro o ne ha visto giusto le crepe, che è pienamente nata e cresciuta nella Società Liquida di Bauman, fluttuante nell’Internet e nelle relazioni, disancorata perché con un balzo troppo audace si ritrova ora sola e sperduta: senza eroi e senza Dei.

ADESSO COSA PENSI?