Articolo diJessica Saggioro

“Nessuno capisce come mi sento, sono solo”. Quante volte abbiamo sentito qualcuno lamentare questa condizione? Solo che a volte non si tratta di un capriccio ma di una preoccupazione ricorrente quando si convive con un disturbo di pensiero, umore o altro tipo.

Viviamo in una società costruita a misura di “persona sana” dove le ripercussioni di un disturbo mentale sulla vita quotidiana sono scarse o rasentano la mitologia. Un’altra informazione poco condivisa è la presenza su tutto il territorio italiano di servizi gratuiti patrocinati dai vari Comuni, volti a sostenere persone affette da disturbi mentali e accompagnare loro e famiglia nel disvelamento delle possibili implicazioni della malattia sulla loro vita.

Fra queste attività a libera partecipazione una ancora poco conosciuta in Italia è quella dei Gruppi di Auto-Aiuto. Martini & Sequi (1988) ce li descrivono come gruppi di persone il cui “intento comune è quello di trasformare coloro che domandano aiuto in persone in grado di fornirlo”.

L’obiettivo infatti è quello di restituire ai partecipanti gli strumenti per controllare la loro vita emotiva, affettiva e lavorativa e fare in modo che, condividendo la propria esperienza di recupero possano essere utili ad altri in un cerchio che possa continuare anche quando i primi avranno ritrovato la loro strada.

Ve ne sono diversi tipi, con diversi orientamenti e volti a diversi scopi. Ad esempio fornire un supporto emotivo, creare un ambiente protetto che funga da confessionale, cambiare un’abitudine nociva e condividere una difficoltà lavorativa o ancora creare una rete di sostegno per i familiari all’interno della quale circolino senza imbarazzo o timori le informazioni relative a pro e contro della malattia che affligge i loro cari e di conseguenza loro stessi.

Questo servizio è solitamente regolato dagli stessi partecipanti, ma trova una guida nella presenza moderatrice di uno o più psicologi. Lo psicologo, sia chiaro, non è lì per diagnosticare il disturbo e intervenire, ma per fungere da elemento rassicurante all’interno di un contesto che spaventa e crea confusione. Si limita insomma a fare da faro di conoscenza teorica, introducendo alcune nozioni manualistiche riguardo i disturbi da cui i partecipanti sono affetti.

Chiarifica per i presenti alcuni concetti che, spesso per estrema carica emotiva, fanno fatica a tradursi in parole (come l’indescrivibile sensazione di paura provocata da una fobia) oppure ancora prende la parola in momenti di silenzio per guidare la riflessione su ciò che si è appena detto e lasciare poi la parola a chi avesse altro da aggiungere.

Cosa succede durante un incontro? Ho avuto il privilegio di assistere ad alcuni incontri e ciò mi ha permesso di entrare in contatto con una realtà estremamente poliedrica ma, allo stesso tempo, discendente da una radice comune. Gli argomenti proposti, che sono fra i più vari, finiscono infatti immancabilmente per convergere su un’indefinita sensazione di impotenza che si traduce nel “non riuscire a fare qualcosa come me lo ero immaginato” oppure “su questo argomento il mio disturbo mi mette in svantaggio rispetto a chi non ce l’ha”.

Ognuno di noi infatti sperimenta ogni giorno un diverso grado di auto-efficacia che varia su una scala da “oggi esco e conquisto il mondo” a “oggi so già che non combinerò niente”. Incredibilmente un buon equilibrio non sta per forza nel mezzo, poiché non siamo infallibili, ma sta invece nella capacità di rimanere flessibili di fronte al cambiamento: la classica capacità di prendere atto dei propri limiti e fare comunque al meglio delle proprie possibilità.

Ciò che purtroppo spesso accomuna i partecipanti al Gruppo è l’assenza di questo movimento. Essi rimangono bloccati da una parte o dall’altra e la spinta che servirebbe loro per spostarsi non gli arriva né dall’interno (per via del disturbo che li affligge) né dall’esterno, poiché il contesto sociale, lavorativo o familiare in cui sono inseriti non è preparato rispetto a questa evenienza.

La capacità di riavviare la spinta dall’interno è una delle tematiche su cui si lavora nei Gruppi Autogestiti: si individua per ogni argomento di discussione il relativo livello di auto-efficiacia percepito e lo si discute (anche animatamente!) per riportarlo a livelli ragionevoli entro la fine dell’incontro.

Detto così sembra piuttosto facile, ma per lavorare bene e ottenere risultati è necessario che si mantenga, durante tutto l’incontro, un buon livello di attenzione. Il che non è semplice quando metà dei presenti ha difficoltà a controllare la sfera emotiva e l’altra metà quella del pensiero.

Ci sono giorni infatti, in cui nella stanza del Gruppo ci si scontra solo con borbottii a mezza voce, sguardi persi, occhi bassi e silenzio. E poi ci sono incontri pieni di occhi attenti, sguardi fieri, testimonianze di qualcuno che, prendendo coraggio dalle precedenti condivisioni, ce l’ha fatta: “ho deciso di chiedere aiuto”, “ho ricominciato a curarmi a dovere”, “ho contato fino a 10 come avevate suggerito.”

Solitamente sono proprio questi ultimi interventi a creare lo spazio per l’apertura dei più restii a palare. Far conoscere la propria storia ha l’effetto di accendere l’attenzione su determinati temi e crea immediata empatia in chi si rispecchia nella narrazione. Più si condivide e più si riceve, non solo dagli altri, ma anche da se stessi. Scopo della condivisione è realizzare di essere in grado di narrare ciò che si prova, sciogliendo quel complicato nodo di emozioni che rimane altrimenti bloccato da qualche parte sottopelle.

Paure, gioie, frustrazioni, successi, tutto viene condiviso in un dare e ricevere così concreto che risulta quasi palpabile al tatto. E così non si tratta più di problemi lontani e astratti ma di difficoltà (e conquiste) che diventano improvvisamente tangibili sia per un ospite occasionale, sia per i compagni di gruppo che, chi più, chi meno, hanno vissuto o vivono tutt’ora la stessa situazione.

Ed ecco che in un istante avviene il riconoscimento. Basta una parola detta distrattamente, ripetuta mille volte a mille orecchie diverse ma mai a quelle giuste, per far sì che si instauri il dubbio: “Allora, forse, non sono il solo a sentirmi così…forse qualcuno che capisce c’è.

È sufficiente questa improvvisa consapevolezza per riavviare la spinta interna necessaria a passare sopra le proprie debolezze trovando nuova forza nella certezza di non essere soli.

È dunque questa la vera forza dei Gruppi di Auto-Aiuto? Questa capacità di trasformare la narrazione in empatia liquida? O sono le persone? Vere, sensibili e un pochino traballanti, ma che si mettono comunque in gioco per diventare il sostegno di qualcun altro. Probabilmente un buon cocktail delle due. Ciò che è sicuro è che si tratta di un’attività di fortissimo impatto che meriterebbe forse un’attenzione più ampia di quella che ha ricevuto finora nel panorama italiano.

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