Articolo di: ARIANNA COGLIO

 

Quanto l’individuo può influenzare il contesto in cui vive? Quanto la pace dipende dal benessere di ogni uomo?

John Lennon nel 1971 intonava con speranza nella canzone Imagine un futuro senza guerra, senza conflitti: “Imagine all the people, living life in peace”. Canticchiando queste parole ci si immagina un mondo di sola pace e di bontà.

Questo mondo idilliaco sembra essere davvero lontano, non è vero? Certamente un mondo ben distante da quello che i mass media ci raccontano oggi, pieno di crimini, malvagità e sofferenza.

Karol Wojtyla diceva “La pace non può regnare tra gli uomini se prima non regna nel cuore di ciascuno di loro”. La psicologia studia molti aspetti dell’uomo, è interessata alle sue passioni, alle sue idee ed il suo comportamento. Come non chiedersi dunque: la psicologia cosa dice? Come si può raggiungere la pace?

Si può definire pace “non solo l’assenza o la minimizzazione della violenza” (negative peace), ma anche “la presenza e lo sviluppo di relazioni armoniose e giustizia sociale” (positive peace). Si aspira dunque ad un equilibrio tra assenza di danno intenzionale ed attivazione per costruire qualcosa di migliore, promozione del benessere, individuale e sociale (Galtung, J. (1969); Christie, D. J., Wagner, R. V., & Winter, D. D. (Eds.). (2001)).

Sicuramente la psicologia da sola non fermerà le guerre ed i crimini nel mondo con una bacchetta magica! Ma può darci qualche spunto per rendere più pacifico almeno il nostro presente, sul quale abbiamo maggiore influenza?

La psicologia della pace e la psicologia positiva (Seligman, 1999) sono due rami piuttosto giovani delle scienze psicologiche. Ciononostante, gli studi finora compiuti sono interessanti da prendere in considerazione per iniziare a comprendere come il singolo individuo possa ingaggiarsi responsabilmente e consapevolmente nella costruzione di un suo contesto di vita il più possibile pacifico e sano, nonostante le numerose sfide che la vita propone ogni giorno.

La psicologia positiva è legata alla psicologia della pace, ponendosi come obiettivo il potenziamento dell’esperienza umana in termini di emozioni positive che contribuiscono alla crescita personale, adattamento positivo, soddisfazione, ottimismo, speranza, self-control ed altre variabili.

Perché è fondamentale lavorare su se stessi? Influisce davvero sulla pace? Sappiamo dalla psicologia della pace (Kalayjian & Paloutzian, 2009), che alcune caratteristiche come l’umiltà, la prudenza, la carità ed il controllo di se stessi, siano correlate con una minore reattività ad eventi negativi, minor aggressività e ricostruzione delle relazioni. Questo può essere declinato in vari ambiti della vita.

Il self-control per esempio, in moltissimi casi è davvero fondamentale. Basti pensare ad alcuni fatti di cronaca recenti che, purtroppo, esemplificano come emozioni incontrollate (es. rabbia, gelosia) elicitate da un evento percepito come negativo per il sé, creino dei grossi problemi, non solo al singolo, ma possono sfociare in forte violenza e danneggiare l’altro, anche irrevocabilmente.

Lavorare sul proprio sé, conoscere le proprie emozioni e saperle regolare (la regolazione emotiva è un caposaldo della psicologia positiva) è davvero necessario per un contesto di pace. È dovere di ogni persona ascoltare le proprie emozioni, non sopprimerle, ma nemmeno lasciar loro prendere il sopravvento.

In particolare, di fronte ad eventi negativi, se non si ha una buona conoscenza di sé e del proprio animo, si può reagire in modo tale da pentirsi successivamente, ci si sfoga magari in modo irresponsabile e dannoso per gli altri. È necessario vivere, comprendere ed imparare a gestire in modo socialmente responsabile le proprie emozioni.

Sicuramente la psicologia può aiutare in questo senso, per esempio attraverso una buona “cultura ed alfabetizzazione emotiva”. Si può partire per esempio già nelle scuole, dove oggigiorno si parla poco di emotività. Ci sono generalmente pochi progetti sul tema emotivo, pochi parlano di cosa sia la rabbia, della sua funzione e di come si può gestire.

Certo, si potrebbe dire che sia compito dei genitori, ma non per tutte le famiglie è semplice, o a volte non è abbastanza. Una buona scolarizzazione emotiva potrebbe aiutare a creare un clima di pace e tolleranza in vari contesti.

 

Il potenziamento di alcune caratteristiche “positive” della persona può aiutare anche ad accedere a risorse ambientali altrimenti difficoltose da raggiungere. Proprio queste risorse ambientali possono poi sostenerci in momenti difficili, aumentando le nostre emozioni positive, rendendoci probabilmente meno aggressivi e più pacifici.

Newman & Blackburn, (2002) chiamano risk factors quei fattori che limitano la crescita personale ed umana e protective factors quelli che aumentano la probabilità di rispondere in modo positivo e proattivo a sfide ed ostacoli della vita (Newman & Blackburn, 2002).

Entrambi i fattori esistono sia a livello individuale che a livello sociale ed ambientale. Nonostante alcuni fattori ci condizionino dall’esterno e noi non abbiamo possibilità di cambiarli direttamente, Hetherington, (2003) sottolinea come alcune caratteristiche individuali (internal protective factors) incidano sulla probabilità che un soggetto acceda ai protective factors dell’ambiente.

Cacioppo, Reis, and Zautra (2011) hanno indicato le seguenti caratteristiche personali come fattori protettivi che favoriscono il buon uso delle risorse ambientali: l’empatia, il senso di connessione con gli altri individui e la collettività, il rispetto ed attenzione per sé stessi e gli altri, l’espressione corretta delle emozioni sociali, la fiducia, la tolleranza, l’apertura e la percezione che ogni individuo rispetti e curi se stesso.

Per esempio, in un momento di disoccupazione, pesante e faticoso per moltissime persone, si possono notare delle differenze nel modo in cui esse affrontano la crisi. Persone con una certa fiducia in se stesse e nella società (internal protective factors), riescono a cogliere con maggiore interesse, positività ed impegno, offerte di lavoro apparentemente poco promettenti.

A volte, proprio grazie al loro impegno, la loro fiducia e tolleranza trasformano quell’offerta poco interessante in soddisfacente e remunerativa, contribuendo al benessere anche economico della loro famiglia.

Un’ultima ricerca longitudinale evidenzia (Fowler e Christakis, 2008) come la felicità venga diffusa nei rapporti sociali e questo significa che le persone vengono influenzate positivamente dalla felicità dei propri amici e persino dalla felicità degli amici dei propri amici.

Pensiamo alla nostra famiglia, quando siamo di mal umore, non si accorgono forse tutti? Quanto siamo condizionati da un parente arrabbiato, nervoso che si siede a tavola con noi?

Certamente, lavorare su se stessi, allenare la propria resilienza, creare il comfort nel dis-comfort, in un’ottica di costruzione del proprio benessere, può essere davvero importante per la salute del contesto stesso in cui si vive.

Certo, non si può ipotizzare un legame diretto tra potenziamento individuale e pace, perché esistono tante variabili complesse. Basta pensare ai risk factors della società non direttamente controllabili oppure a quella che viene definita come “the dark side of happiness”, ovvero un lato negativo della felicità che emerge quando una persona per raggiungere il proprio benessere danneggia uno o più altri individui. Questi ultimi concetti meritano sicuramente un approfondimento.

Ciononostante, è costruttivo tenere presenti gli studi citati per ricordare come il singolo possa fare qualcosa per migliorare il contesto in cui vive, ha delle potenzialità da sfruttare e mettere in pratica il più possibile.

Un ultimo tassello interessante per il contesto attuale viene dalla ricerca di Johnson, K. J., & Fredrickson, B. L. (2005), che sottolineano come le emozioni positive rendano più debole il bias di omogeneità dell’out group.

Questo significa che quando siamo di buon umore percepiamo come maggiormente eterogenee le persone che non appartengono al nostro gruppo e ciò influenza il modo in cui le categorizziamo.

Non giudicheremo “gli altri” come “tutti bianchi o tutti neri” “tutti cattivi o tutti buoni”, ma potremmo ammettere l’esistenza del “grigio”, di varie sfumature all’interno dello stesso gruppo, maggiore flessibilità. L’apertura ed il rispetto sono indicati in letteratura come fattori protettivi. Questo è molto utile proprio nel contesto attuale, in cui l’integrazione dei popoli con cultura e caratteristiche diverse è una sfida costante.

Sentite che la psicologia potrebbe essere un buon aiuto per costruire un mondo di pace?

C’è qualcosa che si potrebbe praticare oggi per migliorare il proprio contesto di vita?

 

Bibliografia

Cohrs, J. C., Christie, D. J., White, M. P., & Das, C. (2013). Contributions of positive psychology to peace: toward global well-being and resilience. American Psychologist, 68(7), 590.

Christie, D. J., Wagner, R. V., & Winter, D. D. (Eds.). (2001). Peace, conflict, and violence: Peace psychology for the 21st Century. Upper

Saddle River, NJ: Prentice-Hall.

Galtung, J. (1969). Violence, peace, and peace research. Journal of Peace Research, 6, 167–191. doi:10.1177/002234336900600301

Johnson, K. J., & Fredrickson, B. L. (2005). We all look the same to me: Positive emotions eliminate the own-race bias in face recognition. Psychological Science, 16, 875–881. doi:10.1111/j.1467-9280.2005.01631.x

Newman, T., & Blackburn, S. (2002). Interchange 78: Transitions in the lives of children and young people: Resilience factors. Edinburgh, Scotland: Scottish Executive Education Department. Retrieved from http://www.scotland.gov.uk/Resource/Doc/46997/0024005.pdf

Hetherington, E. M. (2003). Social support and the adjustment of children in divorced and remarried families. Childhood: A Global Journal of Child Research, 10, 217–236.

Cacioppo, J. T., Reis, H. T., & Zautra, A. K. (2011). Social resilience: The value of social fitness with an application to the military. American Psychologist, 66, 43–51.

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