Articolo di Fabrizio Scarano

1 Marzo 2017: un detenuto egiziano si suicida nel carcere di Caltanissetta, impiccandosi con le lenzuola alla grata della cella, a soli trent’anni.

Quello del suicidio è un tema molto delicato e complesso, e lo è ancora di più quando si parla di carcere. La stampa, con sempre più frequenza, porta alla nostra attenzione episodi di questo genere negli istituti di detenzione italiani.

Si tratta di una situazione multisfaccettata e articolata che mette in luce una serie di criticità dell’esperienza detentiva che, nel caso degli immigrati, assume una enigmaticità ancora maggiore.

Provate ad immaginarvi in un paese a migliaia di chilometri dall’Italia. Quale sarà la prima e forse più grande difficoltà che incontrerete? Quella comunicativa. Le persone parleranno una lingua diversa dalla vostra. Sarà molto complesso esprimere ciò di cui avete bisogno, e questa difficoltà sarà vissuta molto negativamente (ad es. frustrazione e rabbia). Vediamo ora come questa criticità si declina all’interno della realtà carceraria.

La comunicazione verbale è quella che tutti abbiamo in mente, fa infatti riferimento al linguaggio orale o scritto, di cui la parola è lo strumento preferenziale. I detenuti stranieri hanno spesso grosse difficoltà a comunicare i propri dati anagrafici o sanitari in ingresso al carcere, condizione che spesso preclude un adeguato inserimento della persona al contesto carcerario.

Tuttavia, tali difficoltà sono tanto più pervasive nella vita quotidiana, nella relazione con altri detenuti, che spesso risulta molto difficile e che sfocia in uno stato di isolamento e abbandono.

I detenuti immigrati dicono spesso di sentirsi “soli e abbandonati”. Inoltre, ad una scarsa competenza linguistica, si accompagna spesso una pressoché totale mancanza di conoscenza dell’iter giudiziario italiano.

La sensazione è quella di vivere all’interno di un dimensione in cui lo spazio e il tempo si annullano, in cui è difficile immaginarsi, sia rispetto al presente che al futuro. Il tempo sembra infinito e lo spazio sembra non bastare mai. Non si sa quanto tempo si dovrà stare in quel luogo.

Riprendiamo lo scenario da cui abbiamo iniziato. A fronte di una forte difficoltà a comunicare attraverso le parole, cosa fareste? Probabilmente iniziereste ad utilizzare la mimica, e più in generale il vostro corpo. La comunicazione non verbale fa infatti riferimento al linguaggio del corpo (espressioni facciali, tono di voce, gesti, ecc.) che accompagna spesso l’eloquio.

Il nostro corpo esprime anche ciò che non vogliamo ammettere o raccontare al nostro interlocutore: possiamo dirci sereni ma se le nostre gambe tremano, e la nostra bocca e i nostri occhi sono spalancati, difficilmente saremo credibili. Secondo Kramer (1998), il 94% della nostra comunicazione è non verbale, e più specificatamente la comunicazione delle nostre emozioni avviene attraverso il corpo per più del 99%.

Il linguaggio non verbale, per quanto sia importante e centrale nelle nostre comunicazioni è più difficile da comprendere, anche se, proprio per le criticità sopra descritte, è il registro più comune attraverso cui il detenuto straniero comunica.

Il corpo diviene il mezzo con cui il detenuto può comunicare, esprimere i propri bisogni e i propri atteggiamenti. Basti pensare al dato per cui la percentuale di stranieri (14,87%) che pratica atti di autolesionismo è quasi tripla a quella degli italiani (5,48%). Questi gesti assumono un significato comunicativo molto forte: il soggetto straniero prende parola attraverso il corpo.

Che cosa ci dice un corpo mutilato o un silenzio che sembra impossibile da rompere? Ci dicono di una necessità, tutta umana, di attribuire un significato a ciò che sta accendendo. Ed è un bisogno ineliminabile.

L’ingresso in carcere è vissuto dal detenuto come una espropriazione dei propri averi prima e del proprio “io” poi: le regole sono imposte dall’esterno e tutto deve essere legittimato dall’autorità. Ciò che viene a mancare è la possibilità di agire un ruolo attivo nella propria vicenda. Ed ecco che questa necessità, poiché innegabile, assume le forme dell’auto-violenza: tagli, tatuaggi e nella pratica, molto comune tra i detenuti magrebini, di cucirsi le labbra.

Un corpo che diventa una materializzazione dei vissuti anche nella forma della patologia psichiatrica. Molti detenuti, in ingresso al carcere, vivono una sorta di blocco delle idee, sono inerti e tendono a muoversi molto poco, ciò che gli esperti chiamano “sindrome da congelamento”.

Nei giorni successivi all’ingresso al carcere spesso i detenuti avvertono sintomi fisici che mai prima di allora avevano avvertito, ad es. “paralisi” temporanee agli arti, fitte di dolore, fenomeni che innescano indagini, ricoveri che sembrano non finire mai: una vera e propria “fuga nella malattia”.

 

A complicare ulteriormente il quadro è spesso la lontananza dal proprio nucleo familiare e affettivo. Il detenuto straniero vive l’esperienza delle reclusione con forti sentimenti di vergogna e colpa, poiché sente di aver tradito un “mandato”. Spesso, infatti, la storia di emigrazione di un individuo dal proprio paese di origine è una storia familiare e generazionale.

Quel viaggio racchiude e porta con sé aspettative, sogni, desideri, investimenti affettivi ma anche economici delle famiglie che affidano la propria storia e la propria sopravvivenza a quell’individuo.

La dimensione immaginativa che il detenuto immigrato deve affrontare è molto forte: “ho tradito la mia famiglia, ora chi manderà i soldi a casa?” oppure “come reagirebbe la mia comunità se sapesse che sono qui, rinchiuso, e che sono diventato un criminale? Soffrirebbe troppo”.

Soli con i propri sensi di colpa. Spesso i detenuti stranieri provengono da paesi in Africa o America Latina, culture collettiviste in cui il senso delle esperienze e dell’esistenza stessa è definito dall’appartenenza al gruppo, da un tessuto affettivo fatto di connessioni e relazioni molto forti.

Se per noi occidentali il benessere è inteso principalmente in termini di raggiungimento di traguardi individuali (trovare un buon lavoro, realizzare i propri desideri, ecc.) per le culture collettiviste, esso è associato all’armonia interpersonale, a quanto cioè le persone si sentono integrate e rispettate all’interno della propria cerchia sociale.

Vivere lontani, l’assenza della famiglia, del clan, del villaggio, delle regole sociali e delle tradizioni sono spesso percepiti come un ostacolo insormontabile, rendendo particolarmente difficoltosa l’esperienza carceraria e ciò che viene a mancare è la possibilità di attribuire un senso a quello che sta accadendo alla propria vita.

La multiculturalità nelle carceri è un oggetto che purtroppo è poco tematizzato ma che mai come oggi è attuale e stringente. Tuttavia, spazi di intervento sono possibili e auspicabili.

In questo senso, di notevole rilievo sono alcune pratiche da potenziare negli istituti di pena italiani:

  • Sportelli informativi interni al carcere per detenuti stranieri
  • Presenza di mediatori culturali per favorire la comunicabilità all’interno del carcere
  • Possibilità di praticare il proprio culto religioso
  • Laboratori professionali in cui scoprire e potenziare competenze utili per il reinserimento sociale
  • Formazione degli operatori su tematiche legate all’interculturalità

Una maggiore conoscenza dei significati e del valore della differenza culturale è pertanto fondamentale, per evitare di classificare come “incomprensibili” o “estremi” gesti che non sono altro che un grido di aiuto al mondo.

 

References

  1. Pajardi (a cura di), Oltre a sorvegliare e a punire, Giuffrè, Milano, 2009.

Istat, (2003), Gli stranieri e il carcere: aspetti della detenzione, Roma, Istat.

  1. Patrizi (a cura di), Manuale di psicologia giuridica minorile, Carocci, Milano, 2012.

Appunti personali dai corsi del Dott. A. Dijkstra, University of Groningen (2017).

 

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