Articolo di Valentina Fei

Capita di rado che mi lasci affascinare dai sensazionalismi, da recensioni pomposamente entusiastiche di notizie, libri, film che rivendicano il tale libro come un capolavoro od il tale avvenimento come eccezionale.

Forse questo mio scetticismo è causato da un’ indole, alquanto orgogliosa, che vuole giudicare da sé, senza interferenze esterne, se una o tutte, delle cose descritte possa affascinarla, emozionarla e rapirla; ed è lo stesso con le persone, voglio sbatterci la testa e farmi male da sola, che non sono le persone “giuste”, voglio capirlo da sola, affondando le unghie in una storia e farmi totalmente trasportare da essa, da sola.

Ed è proprio da sola, o quasi, che ho scoperto “Le Ragazze” di Emma Cline, sola, come solo quando sei adolescente ti puoi sentire: circondato da tante persone, tante voci, odori e suoni diversi ma che restano un rumore indistinto, ad accompagnare il ritmo frenetico dei tuoi incerti passi verso il mondo dei “grandi”.

Sola, come deve essersi sentita Evie, la protagonista del romanzo, esempio emblematico di un’ adolescenza che urla a gran voce il diritto “ad essere gambero” per parafrasare “Il dramma del gambero” della nota psicanalista francese Françoise Dolto.

Attraverso un sapiente uso della metafora, la Dolto, spiega a noi grandi, o quasi grandi, che quando i gamberi abbandonano il vecchio guscio per costruirsene uno nuovo sono costretti per un certo periodo a rimanere senza protezione.

Tale cambiamento avviene in un momento in cui sono esposti a grandi pericoli soprattutto a causa del “congro” che è un crostaceo che si nutre proprio di gamberi ed è sempre pronto lì a colpire. In maniera identica l’adolescente, quando abbandona la protezione familiare, si espone a grandi pericoli perché deve ancora costruirsi la sua nuova identità, la sua nuova protezione, il suo nuovo guscio.

Evie, ci prova per tutta la parte iniziale del romanzo, a costruirsi il suo nuovo guscio, ci prova aggirandosi silenziosa per le stanze di una casa abitata da un padre dedito all’ alcool e da una madre troppo presa da sé stessa e alla ricerca ossessiva di un uomo, entrambi anch’ essi senza guscio, per essere in grado di aiutarla a non venire divorata dal congro”.

Siamo negli anni ’60, in un’ America dove lo scenario che ci viene tratteggiato davanti è quello di genitori in piena crisi esistenziale: abbandonata la facciata ed il perbenismo da middle class anni ‘50, questi nuovi genitori si scontrano, ad armi spesso impari, con gli hippie, le droghe, la psicoanalisi e soprattutto contro dei figli che ricercano autonomia e la propria “pace interiore”.

E’ così che la nostra eroina, al pari di un Don Chisciotte in gonnella, nel silenzio di una vita routinaria, fatta di amicizie superficiali, qualche spinello e i primi accenni alla sessualità, a tratti omosessuale, si imbatte in loro: le Ragazze, restandone fin dal primo momento affascinata, emozionata e rapita, desiderosa fino all’ autocommiserazione, di inserirsi nel loro mondo, fatto di riti collettivi, condivisione, talvolta anche dello stesso partner sessuale, e di ideali altri da quelli dei suoi genitori, rimbalzando costantemente dal ruolo di bambina a quello di giovane donna, non identificandosi mai in nessuno di essi; proprio come qualsiasi adolescente di qualsiasi epoca.

La protagonista è quindi piena di disprezzo sia nei confronti degli adulti che dei bambini, i primi troppo egoisti e presi dai fatti loro e i secondi troppo dipendenti dagli adulti.

 

Tale ambivalenza mi ha ricordato, tramite Evie, uno dei principali problemi tecnici per chi ha in carico un paziente adolescente all’ interno di un percorso di sostegno psicologico.

L’adolescente tende, quasi sempre, come Evie, a rifiutare l’aiuto, nonostante gli innumerevoli tentativi, da parte dello psicologo, di stabilire un’ alleanza terapeutica, per due opposti motivi: il primo é che teme una manipolazione da parte di un adulto che, pretendendo di curarlo, potrebbe cercare di imporgli modelli di pensiero e di comportamento inaccettabili, perché appartenenti al mondo adulto visto come distante ed assente.

Ed é proprio il modo in cui Evie vede sua madre, che non si trova capace di accettare senza reagire le sue rigide critiche.

Il secondo motivo è perché si rende consciamente o inconsciamente conto che il lavoro psicologico potrebbe comportare la rivisitazione dolorosa dei propri conflitti infantili, considerati cose da bambini.

Così come ogni adolescente, affronta queste sfide, aggrappandosi e cercando un identificazione, al gruppo dei pari, Evie si aggrappa a loro: le Ragazze, rendendosi però progressivamente conto, che le regole, i dogmi e le convenzioni che rendono la rendono schiava dei suoi genitori, non sono poi molto diversi da quelle dell’ apparente mondo senza regole del ranch dove le ragazze sono inclini a subire in maniera drammatica le aspettative di un mondo ancora troppo ottusamente a favore dei bisogni del maschio.

L’amicizia e la rivalità per conquistare Russell, antieroe moderno, la cui presenza all’interno del romanzo sembra assomigliare più ad un fumo denso ed intossicante che ad un protagonista in carne ed ossa, e il sentimento di appartenenza e la volontà di lottare contro l’inquadramento del mondo, rendono queste ragazze schiave di una famiglia allargata che risulterà forse drammaticamente peggiore di quella di origine, bloccandole in un’ adolescenza eterna.

Tale blocco identitario, come ha mostrato Erikson, potrebbe portare al non divenire mai adulti od a divenire adulti che sperimenteranno un senso di stagnazione, di immobilità e soprattutto di inutilità riferita alla propria esistenza, cercando costantemente la propria “funzione sociale” dalle conferme esterne, come si evince nella ceca abnegazione che le ragazze nutrono nei confronti di Russel.

Il finale drammatico, raccontato da un Evie ormai adulta, che guarda con indulgenza alla sé adolescente, quasi come a dirsi: “Ho fatto tanti errori, ma li rifarei tutti dall’ inizio alla fine!” ci fa intendere che lei stessa forse non è mai uscita dall’ adolescenza e dal ranch, ma si è salvata grazie all’ amore di Suzanne, elemento cardine in tutto il romanzo, senza la quale non avrebbe mai conosciuto Le Ragazze, lo stesso amore che Evie pretendeva da sua madre.

«Era solo un cuore, come quello che qualunque ragazzina innamorata potrebbe disegnare sovrappensiero su un quaderno».

Evie potrebbe essere nostra madre, la signora di mezza età che fa compagnia a nostra nonna nei week end, la vicina di casa che vive da sola con un gatto ed una bottiglia di cherry o l’ ottusa signora che ci chiede appuntamento tutti i lunedì, al solito orario e guai a cambiare il gusto di caramelle sulla scrivania, è colei che giunta vicina al traguardo della propria vita, osserva il suo percorso e si guarda indietro cercando di comprendere se sono stati commessi gravi errori; che ci chiede aiuto per riflettere se può dirsi soddisfatta di come ha vissuto o se, per essere “brave persone”, occorre provare rimpianto per qualcosa che si poteva fare, che non si è fatto e sta a noi professionisti spiegarle pacatamente, senza supponenza accademica, che non è mai troppo tardi per rimediare.

Credo che di Evie ne vorrò incontrare tante, tantissime, in studio, su un autobus, in fila alla casa, non importa dove, le voglio incontrare per dire loro, parafrasando Erikson, che il viaggio può essere stato bello, o meno bello, gli obiettivi sono stati realizzati o meno ma che rimane l’ultima fase da vivere, senza rimpianti e rimorsi, e che questa vita andrebbe vissuta proprio come cantava Max Pezzali (senza): “Nessun rimpianto, nessun rimorso…” e che a volte, occorre semplicemente perdonarsi.

ADESSO COSA PENSI?