Articolo di Francesco Latini

 

Con l’avvicinarsi del 25 Aprile, anniversario della Liberazione, ho deciso finalmente di leggere “Maus: A Survivor’s Tale”, la graphic novel di Art Spiegelman che rivoluzionò il mondo del fumetto guadagnandosi lo Special Award del premio Pulitzer nel 1992.

In estrema sintesi, l’opera consiste nell’intreccio di due piani narrativi diversi: uno, quello ambientato tra il 1933 ed il 1948, in cui siamo accompagnati nella lenta ma inesorabile discesa dell’ebreo polacco Vladek Spiegelman (padre dell’autore) e della sua famiglia nell’inferno dell’Olocausto; l’altro, ambientato alla fine degli anni’70 negli Stati Uniti, in cui il focus si concentra sul difficile rapporto tra un padre inevitabilmente segnato dagli orrori della guerra ed un figlio ingiustamente vittima di quei fantasmi, il tutto appesantito dalla “tragedia fra tragedie” della morte del primogenito/fratello mai conosciuto Richieu e dal suicidio mai completamente compreso ed elaborato della moglie/madre Anja nel 1968, incapace di superare l’esperienza dei campi di concentramento.

Il disegno stilizzato e minimale, l’assenza di colore e la rappresentazione allegorica delle diverse etnie con vari animali antropomorfi (i topi per gli ebrei, i gatti per i tedeschi, i cani per gli statunitensi e così via) rappresentano sicuramente alcuni dei maggiori punti di forza dell’opera.

Diverse sono le riflessioni psicologiche che permette di fare Maus e, tra queste, una riflessione sulla trasmissione transgenerazionale del trauma, cioè sul fatto che eventi traumatici impensabili e soverchianti tendono ad avere delle conseguenze durature non solo sulla generazione direttamente coinvolta ma anche su quelle successive. In particolare, quanto più ci immergiamo nella lettura, tanto più si fa strada il sospetto, verbalizzato poi anche dal figlio stesso, che Vladek “in un certo senso non è sopravvissuto”: nella carne (problemi cardiaci, problemi alla vista, diabete, cicatrici) e nello spirito (vissuti persecutori nei confronti della nuova compagna, marcate tendenze ossessive, eccessivo distacco dagli eventi narrati, ricerca infantile dell’attenzione e del sostegno del figlio, relazione patologica con il risparmio) continua a portare i segni dell’orrore nazista e della perdita definitiva di una parte di Sé ad Auschwitz-Birkenau.

A partire da questo, ho cercato di capire se e quanto i traumi patiti dagli Spiegelman si siano poi ripercossi sulla prole, su quanto il peso insostenibile di quell’esperienza sia poi stato condiviso, più o meno consapevolmente, con il figlio nato e cresciuto nel ricco ed opulento Occidente. In effetti, se inizialmente Art Spiegelman ci mostra una maschera di sanità, nel corso del racconto ci accorgiamo che questa maschera presenta in realtà delle crepe, che da queste crepe esce un denso fumo di sigaretta, e che sotto il fumo si nascondono i connotati di un volto sconvolto dall’angoscia e dalla depressione, tanto marcati da richiederne il ricovero psichiatrico nella prima età adulta, come si attesta in questa striscia risalente ad un precedente fumetto realizzato dall’artista e poi inserito in Maus, dove in modo estremamente significativo si raffigura come un deportato in un campo di concentramento.

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