Il turismo, i pellegrinaggi, le diaspore, l’esplorazione così come il navigare in Internet sono tutti fenomeni di mobilità umana (F.M.U.). Che siano dettati da un bisogno, da un pericolo, da un sogno, essi presuppongono il muoversi fisico o anche solo psichico di una o più persone.

I processi migratori si inseriscono anch’essi in questa categoria e negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescita esponenziale di migranti arrivati nelle coste e non solo, così da divenire una vera e propria emergenza sul piano nazionale e mondiale.

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Non mi piacciono le cifre, troppo fredde e pungenti ma credo che in questo caso possano davvero farci ben capire l’intensità del fenomeno che abbiamo di fronte e in modo pungente appunto, portarci a guardare la realtà, interrogarci su ciò che è possibile fare e su cosa si sta già facendo.

Prendendo come riferimento quello italiano al 1° gennaio 2017 su una popolazione di 60.579.000 abitanti ve ne sono 5.029.000 di abitanti stranieri residenti regolarmente in Italia di cui la nazionalità più rappresentata è quella rumena seguita da quella albanese.

Al 2015 abbiamo 153.842 migranti sbarcati, 18.056 minori non accompagnati di cui il 34% risulta ancora irreperibile, 84.085 richieste di protezione internazionale, di queste solo 71.000 sono state esaminate e solo il 41% di queste sono state accolte1.

Cosa spinge una persona a migrare verso un altro Paese, spesso sconosciuto, senza nessun punto di riferimento che sia un luogo o un parente? Cosa sperano di trovare in questo Paese?

La storia dell’umanità è costellata di fenomeni migratori e gli stessi italiani dopo le due grandi guerre sono emigrati dal nostro paese in cerca di lavoro, fortuna, una nuova vita per sé e per i propri figli; lo spostamento di massa che stiamo vivendo oggi si aggiunge a questa “lista” infinita e ci pone tante domande sul piano economico, politico ma soprattutto emozionale e psicologico.

L’immigrato, ossia colui che decide di lasciare il suo Paese natio e si dirige verso un’altra Nazione, è spesso colui che ha subito direttamente o indirettamente maltrattamenti e sofferenze (guerre, carestie, torture, violenze sessuali, reclusioni forzate in prigione), che proviene da luoghi ove la speranza di vita è ridotta ai minimi termini.

Vorrei aprire una parentesi sulle reclusioni forzate portando l’attenzione alla Libia: molti migranti arrivano in Libia nella speranza di poter lì trovare altri soldi per continuare il viaggio in mare e così molto spesso accade che passino mesi o anche anni a lavorare.

Altrettanto spesso però accade che le donne vengano violentate e gli uomini vengano imprigionati con l’unico obiettivo di riuscire ad estorcere loro dei soldi, minacciando di far del male alle loro famiglie e poi a loro stessi.

Tutto questo rientra in quello che viene chiamato aspetto pre-migratorio di una condizione definibile come trauma migratorio.

 

Ad aggravare quindi la condizione sopra descritta, è il fatto che l’immigrato sperimenta in queste situazioni una costante insicurezza e sospettosità verso chiunque e qualunque cosa (riuscita o meno del viaggio, i trafficanti o gli stessi compagni di viaggio).

È inoltre importante considerare che noi siamo abituati a pensare ai migranti come a persone povere ma molto spesso esse sono persone che nel loro Paese avevano un ruolo, uno status sociale ed economico e sanno che di lì a poco si ritroveranno con nulla in mano!

Nell’aspetto pre-migratorio va considerato che spesso essi sono costretti ad una fuga, una partenza improvvisa ed inaspettata che non lascia loro il tempo non solo di salutare parenti ed amici ma nemmeno di lasciare loro notizie su quando e dove arriveranno.

La componente pre-migratoria, come dicevo prima, è solo il primo step di quello che può definirsi trauma migratorio e a questo si aggiunge poi un aspetto peri-migratorio ed infine uno post-migratorio; al peri-migratorio si associano tutti gli avvenimenti inerenti il viaggio in sé: viaggio molto lungo (si parla di mesi se non addirittura di anni), costoso (spesso tutto il villaggio di provenienza contribuisce a quel viaggio nella speranza che il/la giovane possa trovare fortuna), pericoloso e di per sé traumatico in quanto va a minare la propria sopravvivenza. Vi è infatti, come possiamo constatare dai fatti di cronaca nera, un alto rischio di mortalità causando così un’incertezza sull’esito del viaggio.

Non meno importante è il rischio di perdere persone care: spesso si viaggia con amici o parenti e durante il lungo viaggio, attraversando mare e terra, capita sovente di venir costretti a separarsi dai propri compagni senza avere più loro notizie, causando così un’angoscia che per mesi o anni potrebbe non risolversi mai.

Infine, come dicevo, a “comporre” quello che definiamo trauma migratorio vi è l’aspetto post-migratorio: si arriva finalmente in un nuovo Paese (che non sempre o quasi mai è la metà definitiva, poiché la speranza è di poter raggiungere qualche conoscente in Germania, Svezia, Francia, ecc) e ci si trova di fronte uno scenario sconosciuto e oserei dire insidioso!

Il rischio di rimpatrio è altissimo così come quello di detenzione, vi è un forte shock culturale (nuovi costumi, nuova lingua), la speranza di trovare lavoro è scarsa se non nulla, grosse difficoltà all’accesso dei servizi sanitari a cui si aggiunge la complessità nelle procedure di richiesta asilo politico (l’esito è incerto e si aumenta ancora di più il rischio di rimpatrio forzato).

Da cornice a tutto ciò non si può e non si deve non considerare che si è soli; sradicati dalla rete familiare e sociale ci si trova immersi in un profondo senso di solitudine.

Già complesso e doloroso di per sé, il trauma migratorio può sfociare nel più conosciuto disturbo post traumatico da stress (PTSD acronimo inglese), considerando che i fattori di rischio più comuni negli adulti sono proprio l’aver subito torture o violenze, la condizione di clandestinità, l’assenza di supporto familiare ed una bassa scolarità è qui che la psicologia transculturale si inserisce, riconoscendo:

  • Che il paziente ha un suo punto di vista culturale;
  • L’identità e le regole culturali dell’altro;
  • L’importanza del fattore culturale;
  • Il trauma migratorio in tutti e tre gli aspetti.

 

1 i dati riportati sono stati raccolti dal sito http://www.istat.it/it/archivio/194747 e dalla dott.ssa Laura Arduini (Responsabile psichiatra Casa della Carità di Milano) intervenuta il 20/06/2017 al Convegno Etonopsichiatria Cultura-Territorio.

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

http://www.istat.it/it/archivio/194747

https://www.theguardian.com/global-development/2015/may/11/amnesty-report-abduction-torture-migrants-libya-mediterranean

http://www.tpi.it/mondo/africa-e-medio-oriente/libia/amnesty-international-abusi-sui-migranti-in-libia/#

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Ilaria Giardini
Sono la Dott.ssa Ilaria Giardini, nata a Cattolica e cresciuta a Pesaro; laureata in Psicologia presso l’Università degli studi di Urbino. Sono psicologa, abilitata all’esercizio della professione e iscritta all’Ordine degli Psicologi delle Marche (n° 2675). Durante la specializzazione in Psicologia Clinica mi sono sempre più interessata all’approfondimento della Psicogeriatria, campo in cui lavoro tutt’ora, facendo parte dell’equipe del Centro Diurno Margherita di Fano (specializzato nelle demenze in particolar modo di tipo Alzheimer) e in cui mi sto ulteriormente perfezionando; ho ottenuto da poco la certificazione come Operatore Validation e ho partecipato al Premio Gentlecare Sicurhouse, “Studi sull’applicazione del metodo Gentlecare in ambito geriatrico. L’attualità del modello”, vincendo nel dicembre 2016 il primo premio con un elaborato dal titolo “Giorno dopo giorno dobbiamo vivere; se possibile bene”. Fa da cornice un mio sempre maggiore interesse verso l’area del benessere psicologico, al fine di promuovere e gestire le risorse personali di ogni individuo. Contatti: giardini.ilaria@libero.it

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