Il mondo si fa improvvisamente strano nel corso di un attacco di panico. Tante cose paiono diverse dal solito, ma in particolare la realtà esterna diviene strana. Il corpo si fa leggero e pesante allo stesso tempo, come se d’un tratto la tua mente cercasse una via di fuga. Sei pervaso da tremori e brividi come se qualcosa di tremendo ti stesse capitando attorno. La testa si fa pesante, il sangue la pervade, come quando ti alzi da una sedia dopo esser stato lungamente seduto.

Ti intontisce. Il fiato si fa corto e le gambe si fanno pesanti, come se fossi reduce da una corsa forsennata. Il cuore ti batte nel petto a mille, rimbombando nelle tempie e nelle orecchie, come quell’attimo prima in cui stai per avere uno svenimento. Ma il tuo corpo non ti concede la quiete come quando svieni: si attiva e basta. Ti lascia lì, sudato, pallido e spaventato, e così rimani per un po’ di tempo, senza poterci fare niente se non progressivamente lasciar passare questa attivazione.

Di panico non si muore, uno si dice. Ed è vero: di panico non è mai morto nessuno. Per quanto il suo manifestarsi ricordi per certi versi l’esordire di un attacco cardiaco o di un’apnea respiratoria, non si tratta di nulla di tutto ciò. È inevitabile però pensare al peggio, data la stranezza della sensazione, la sua immediatezza, la sua inemendabilità.

Il panico è di per sé una fuga, e non c’è modo di fuggire ad una fuga senza alimentare quel senso di impotenza che ne caratterizza l’esperienza.

È tutto così strano. Ma ben più strano è ciò che succede là fuori, fuori dalla bolla in cui il panico ti rinchiude. Secondi, minuti che sembrano ore, e che strascicano con sé un sentire che è quasi un’epifania, una rivelazione amara che spesso permane per giorni dall’attacco. Il mondo, la realtà, diventa improvvisamente una stranezza. Come se fosse finta.

Lo vivi come un risveglio, come la repentina scoperta che “ah ma io vedo il mondo con i miei occhi!”. L’esperienza corporea diviene così insopportabile da farti pensare che sia insopportabile quella vista, di quella realtà che vedi dallo spioncino della tua scatola cranica. I colori si fanno diversi, le facce si fanno diverse, il paesaggio sembra una scenografia pastello di una grossa montatura carnevalesca.

Non ci vuoi stare in quello stato di cose, è tutto così poco familiare da far paura. Eppure non era così fino a pochi minuti fa, e soprattutto non si può proprio mettere in discussione qualcosa come la percezione del reale, che ci accompagna da quando siamo nati e connota tutti i nostri ricordi. Vedere il mondo in prima persona acquista un significato grottesco, quando prima era del tutto naturale. Non è un pensiero razionale, ma un sentire, forse un esattamento del pensiero ad un emozione che si insinua strisciando nei meandri della tua mente.

È l’emozione ambigua e rivelatrice che la Natura delle Cose, con il suo prorompente fluire, fa esplodere nella tua abitudinaria percezione del Reale. Ed è frastornante, spaventoso, pensi che non potrai più tornare indietro, ora che vedi il mondo come se fossi dietro ad una maschera di carne, che poi è la tua faccia, lo sai – ma la razionalità non trova spazio in un’esperienza che, per definizione, rappresenta lo smontaggio accurato di ogni impalcatura noetica di cui, nella tua vita, ti sei servito per affrontare il mondo.

Il conseguente pensiero, di fronte ad una testa che sta ormai prendendo il volo dal corpo, è quello di impazzire: un’apprensione un po’ paranoica che è lecito sviluppare di fronte a tanta prorompenza, di fronte ad un emozione delle più basali e arcaiche che, nel panico, si sviluppa alla massima potenza e, il più delle volte, senza un motivo apparente: è l’emozione della paura.

A mente fredda, mesi dopo l’insorgere di tali esperienze, questi discorsi sembrano ridicoli, assurdi, uno si chiede come abbia fatto a pensare a tali bazzecole. Ma la verità è che né sul momento né molto tempo dopo si è in grado di accettare un fatto fondamentale di questa esperienza: la paura profonda e viscerale.

Quando si ha il panico, per quanto tu possa avere una conoscenza più o meno naturalistica, più o meno scientifica del fatto psichico, per definizione la paura si impossessa di noi. Ma non è una paura per un oggetto, un qualcosa che sta fuori di noi, alla cui vista il nostro corpo potrebbe decidere di girare i tacchi e correre come se non ci fosse un domani. È un profondo sentimento di paura, profondissimo, viscerale, arcaico e soprattutto dal quale non hai idea di come uscire.

Perché se l’oggetto fobico è in te, non hai modo di fuggire dall’oggetto fobico.

Probabilmente è per questo motivo che sono gli stimoli enterocettivi (quelli che vengono dal corpo per intenderci) a far più paura nei momenti di panico o, spesso, ad attivarli: sentire il proprio battito, sentire il proprio respiro, sentire i brividi lungo la colonna. È l’esperienza del sentire che in qualche modo muta, e continua a mutare in peggio finché, nel tempo, non si arriva alla consapevolezza della naturalità e necessità dell’Essere.

Qualcosa che gli indiani definiscono Ka, un concetto che possiamo avvicinare come spontanea appercezione del Reale, una parola che potremmo tradurre come – ciò. Ciò che è, che è in se sufficiente per esistere, che spontaneamente è, che ha a che vedere con l’esperienza del risveglio. Anche il risveglio fa paura quando provi il panico, e vorresti dormire per sempre, ma poi la notte ti svegli perché è un po’ come morire.

Le agrodolci contraddizioni di queste esperienze diventano, col tempo, qualcosa di curioso, ma che sempre più ti spingono a riflettere sui significati ultimi della vita, che altro non sono che quelli più prossimi a noi: il sentire, il vivere, il provare emozioni. Nulla di ciò può essere mai mortale o sbagliato, per definizione – Ka.

Sempre col tempo, lasciando andare i pensieri catastrofici di ineluttabilità e imparando a prendere le debite distanze (quello scetticismo del tutto funzionale alla presa visione della propria vita) si è in grado di comprendere come il panico, in fondo, altro non è che una delle vie privilegiate verso quell’apertura al mondo necessaria, soprattutto quando la mente, con le sue costruzioni e le sue paranoie, ci spinge lontani dalle cose delle vita.

Riferimenti:

Calasso R., Ka, Adelphi, Milano, 1996.

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