Articolo di Francesco Latini

Il grado di civiltà di una società può essere valutato entrando in una delle sue prigioni” (F. Dostoevskij)

È facile mettersi nei panni di Abele. Molto più difficile, invece, mettersi in quelli di Caino. Pensiamo alla retorica della castrazione chimica, del “buttare via la chiave”, della pena di morte: quanti di noi possono dire di non essere mai stati solleticati da queste posizioni, specie quando rivolte a categorie di detenuti come, supponiamo, i pedofili, che nel linguaggio dei mass media e nel pensiero comune rappresentano gli orchi (e quindi l’Altro rispetto all’umano) per eccellenza?

Eppure, una visione manichea del mondo dove tutto è bianco o tutto è nero, dove il Bene ed il Male sono chiaramente distinti, è una prospettiva tanto rassicurante quanto superficiale e bidimensionale: superare la scissione e tenere insieme un’immagine complessa, tridimensionale, del mondo significa riconoscere che aspetti positivi e negativi sono inevitabilmente intrecciati. Anche nei detenuti. Anche in chi si è macchiato di crimini efferati.

Questo non significa giustificare le loro condotte, non significa adottare una posizione buonista, non si pretende che chi è vittima in prima persona superi il sentimento di vendetta, anche se questo movimento è chiaramente evolutivo e terapeutico: il passaggio dall’odio a qualcosa di diverso (comprensione/accettazione/perdono) è un prerequisito essenziale per superare il blocco evolutivo in cui le vittime e le loro famiglie si trovano gettate a seguito di certi reati.

Chiaramente le vittime e le loro famiglie hanno bisogno e diritto ad un supporto, ma lo stesso vale anche per chi riveste il ruolo di Caino. Qualcuno deve pur supportare anche loro. Molti, a questo punto, si chiederanno giustamente e comprensibilmente <<Perché?>>.

Come scrive Antonio Mattoneil sistema penitenziario italiano costa al contribuente circa 3 miliardi di euro l’anno, ma produce uno dei tassi di recidiva più alti d’Europa” e questo sarebbe causato dal fatto che la galera “è stata pensata più per l’afflizione che per il ravvedimento” e costituisce “una istituzione deresponsabilizzante dove il periodo della detenzione è contrassegnato per lo più da un ozio forzato che fa sprecare il tempo che dovrebbe essere invece impiegato per la risocializzazione e per un vero ripensamento della propria vita”, tempo che appare un “gocciolare interminabile, inutile, assurdo”, e dove esiste “una enorme sproporzione tra l’enorme numero di agenti di polizia penitenziaria […] e quello di educatori, assistenti sociali, per non parlare degli psicologi, specie oramai in estinzione”.

Appare quindi chiaro che un sistema carcerario disfunzionale non sarà in grado di rieducare e risocializzare il detenuto ma anzi lo abbrutirà ancora di più, rappresenterà una cosiddetta “università del crimine” comportando quindi un meccanismo “a porta girevole” per cui questi entrerà ed uscirà più volte dal carcere rappresentando perciò un peso e non una risorsa per la società.

Inoltre, se il detenuto viene vittimizzato, come potrà riflettere sul suo ruolo di carnefice? Se il detenuto è assorbito nelle sue sofferenze ed ingiustizie quotidiane, come potrà dedicare uno spazio mentale adeguato rispetto al male che ha fatto?

Piccola nota personale: nell’Istituto in cui attualmente svolgo il tirocinio come psicologo ministeriale, i lunghi corridoi che connettono i vari reparti del carcere sono intervallati da grossi orologi che dovrebbero informarci sull’ora, se non fosse che in realtà sono tutti fermi o rotti: d’altra parte, mi sono detto, che importanza ha il tempo in un luogo come questo, dove spesso rimane congelato fino al termine della pena?

Per fortuna io mi salvo grazie al mio orologio da polso… ma quanto può essere alienante un contesto del genere per chi ne è sprovvisto? Il tempo passato in carcere, in un carcere così, quanto è trasformativo?

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