La Giornata Mondiale della Psicologia e la Giornata Mondiale della Salute Mentale, due eventi davvero importanti per portare l’attenzione collettiva sul disagio psichico e la sua prevenzione e cura, hanno rievocato una serie di dati e proiezioni dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) circa il grande male del nostro secolo, un disagio psichiatrico che pare abbia una crescita pandemica e, nel giro di pochi anni, sarà la più diffusa e invalidante malattia in Occidente: la Depressione Maggiore.

Non ho nulla da dire circa l’importanza delle campagne preventive, che molto correttamente tentano di sensibilizzare il pubblico circa l’importanza di considerare la depressione come un qualunque tipo di disagio e non come un difetto morale o un segno di debolezza. Ma la domanda che ci si pone, per onestà intellettuale, a questo punto è: ma siamo sicuri di aver capito cos’è la depressione o siamo vittime di una grossa confusione diagnostica? Riformulando la domanda: le statistiche dell’OMS ci stanno parlando della depressione o  della tristezza normale?

Mi rifaccio qui ad uno scritto di due grandi esponenti contemporanei della psichiatria, Jerome Wakefield e Allan Horwitz che in La perdita della tristezza tentano, tracciando la storia della depressione all’interno delle prospettive psichiatriche antiche e recenti, di reinquadrare il fenomeno patologico a livello teorico, mettendo in luce i cambiamenti metodologici e di costrutto del tutto contemporanei che hanno portato a quella che loro definiscono una grande sovrastima della patologia depressiva.

Ciò che i due psichiatri lamentano è l’incapacità della moderna psichiatria di distinguere fra tristezza normale e patologica, a fronte del massiccio utilizzo di criteri diagnostici sempre più ampi, una scelta dettata anche in vista di interessi economici e politici più ampi.

Procediamo con ordine: cos’è un disturbo mentale? Wakefield propone la definizione di “disfunzione dannosa”, includendo nell’ambito della patologia tutti quei processi disfunzionali che recano danno al funzionamento individuale in diversi contesti di vita, come relazioni sociali o affettive, studio o lavoro. Prendiamo ad esempio l’alluce valgo: la flessione dell’alluce rispetto al suo asse rappresenta di per sé una disfunzione, ma vi assicuro che questa deformazione non rappresenta un pericolo per la nostra vita affettiva o lavorativa.

La depressione è qualificabile come una disfunzione dannosa? Assolutamente sì, almeno qualora i sintomi depressivi si configurino come patologici. Ecco il discorso circolare: per definire la depressione come un disturbo ho bisogno di rintracciare una serie di sintomi che appaiono patologici, e da questo circolo vizioso non si esce finché non si stabiliscono criteri oggettivabili circa la disfunzionalità del sintomo.

Questo problema appare davvero delicato considerando che, a detta dell’OMS, la depressione si piazza al primo posto fra le patologie per grado di disabilità conseguente, almeno in Occidente. La situazione si fa ancora più complessa considerando che esistono coperture assicurative, congedi per malattia e politiche sociali conseguenti dall’istituzione della depressione come malattia. Costi che, ad oggi, appaiono, con la diffusione pandemica che gli osservatori dell’OMS riferiscono, insormontabili.

In questo scenario sconfortante, Wakefield e Horwitz si pongono un quesito piuttosto critico: ma se i dati che abbiamo in mano sulla depressione non fossero veritieri? O meglio, se l’entità del fenomeno fosse sovrastimata? Tale sovrastima non sarebbe possibilmente dovuta a disattenzione o eccesso di apprensione clinica, ma, a detta dei due, potrebbe essere fatta risalire ai criteri utilizzati dagli strumenti diagnostici contemporanei.

Questi strumenti (primo fra tutti il DSM – Diagnostical Statistical Manual) non sarebbero in grado di compiere un importante discrimine: quello fra tristezza normale e tristezza patologica. Proprio qui si rinviene quella circolarità che abbiamo individuato pocanzi: di fatto, occorrono criteri ben definiti e validati per poter procedere ad una distinzione fra normalità e patologia (poiché ci accorgiamo fin troppo bene, anche nella vita quotidiana, quanto il confine fra questi due costrutti sia evanescente).

La tristezza normale, di fatto, non è una malattia: anzi, i comportamenti di ritiro tipici degli stati di tristezza sono potenzialmente adattivi per l’uomo per far fronte all’evento stressante latore della tristezza. Ad esempio, se la mia ragazza mi ha lasciato e io passo una settimana, giorno e notte, rincagnato sotto le coperte a piangere ed ascoltare Francesco De Gregori, è probabile che tutto questo stare male, nel breve-medio termine, mi aiuti a dimenticarla, desistendo dalla fantasia onnipotente di poterla riconquistare e decidendomi a tornare uccel di bosco. Chi non conosce questo tipo di tristezza?

Il problema si fa serio nel riconoscere la tristezza patologica: mettiamo caso che, nello scenario precedente, io rimanga in questo stato per un mese, due mesi, sei mesi. L’intuito clinico della mamma o del papà, nonché il nostro, sarà il primo ad accorgersi che qualcosa non va, e si potrebbe pensare a richiedere un sostegno piscologico. Ottimo. Abbiamo intuitivamente scoperto come il criterio temporale sia un valido descrittore di un comportamento patologico. E di fatto il criterio temporale (presenza dei sintomi per 6 mesi o più) è presente nel DSM come criterio essenziale per poter apporre la diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore – la depre, per intenderci.

Ma Wakefield e Horwitz non si accontentano: mettiamo caso che io sia senza lavoro, senza figli e senza famiglia ormai da un anno. La mia vita fa schifo, non ho obiettivi e non ho supporto: in una tal situazione, il criterio temporale da solo può permettermi di individuare una condizione patologica? Non è forse normale poter essere tristi quando la tua vita va a rotoli? La dis-funzione sarebbe ben più evidente qualora avessi trovato un ottimo lavoro, mi fossi appena sposato e fossi da poco diventato padre e, nonostante tutto sono triste la maggior parte dei giorni per tutto il giorno da 6 mesi o più. Lo so che state pensando che ci sono validi motivi per essere tristi quando sei padre e sei marito, ma state al mio gioco adesso.

Qui allora rinveniamo un importante criterio discriminatore: il contesto. La tristezza da normale comincia ad entrare nell’area della patologia quando è fuori contesto o, semplicemente, non regredisce di fronte alla mutevolezza dell’esistere, fatto di momenti buoni e di momenti cattivi.

In questo senso i Nostri Autori lamentano la perdita della tristezza favorita dalla psichiatria occidentale contemporanea: perché i criteri classificatori attuali non discriminano le forme di tristezza patologica, bensì ampliano il raggio della diagnostica intercettando spesso casi di tristezza normale. Va da sé, tali soggetti vanno a gonfiare le statistiche, sul grosso numero, e corrono il rischio di essere patologizzati per la loro tristezza.

Gli autori, senza scendere nel merito di teorie complottiste, chiosano cinicamente dicendo che, nonostante la ormai consapevolezza della comunità scientifica nei confronti di questo fatto, la psichiatria fa un po’ orecchie da mercante nei confronti della situazione. Probabilmente per non correre il rischio di sottostimare il fenomeno. Ma ricordiamoci anche il giro di affari dietro a questo stato di cose. Consideriamo, ad esempio, che le stesse case farmaceutiche, in USA, foraggiano le campagne di screening e prevenzione contro la depressione: ma se lo screening individua depresso chi non lo è, il Prozac diviene la risposta a tutto! In ogni caso, per prevenire una sottostima, la sovrastima non rappresenta una buona risposta, ma solo un errore diagnostico.

Ci rimette il singolo, patologizzato dalla psichiatria, ci rimette la società, perché di fronte a stime gonfiate sull’entità del fenomeno diviene più irrealistico per gli enti pubblici e le politiche nazionali pensare a piani di investimento per arginare il fenomeno e migliorare la prevenzione. Questo in un momento storico in cui i servizi territoriali, unica interfaccia con il disagio psichiatrico, si trovano nelle proverbiali braghe di tela per far fronte ad un’esigenza assistenziale sempre crescente.

Ci rimette infine la tristezza: il cui valore intrinsecamente funzionale all’individuo nella pianificazione e ripianificazione degli obiettivi esistenziale va perso, trangugiato con una dose di Sertralina.

La tristezza è un’emozione importante quanto le altre: riuscite a ricordare di essere stati tristi, e di quanto l’emozione che avete provato, a conti fatti, vi è servita nel potervi rimettere in carreggiata? Non dobbiamo aver timore di essere giù o di attraversare momenti neri, quelli sono connaturati all’esistenza: quando siamo giù per tanto tempo, la domanda da porsi diventa – ma cosa c’è che non va nella mia vita?

Oltre che un esercizio di consapevolezza, problematizzare e contestualizzare la tristezza rappresenta un primo valido interrogativo da porsi, in vista della possibile ricerca di un sostegno psicologico o psichiatrico.

ADESSO COSA PENSI?