Ripetere e rielaborare

È una condizione comune di sofferenza quella del ritrovarsi a vivere le stesse situazioni dolorose, di sentirsi come vincolati in scelte che non ci rendono felici, di sentirsi come “predestinati” a patire nel nostro personalissimo modo.

Ci si ritrova invischiati in relazioni sentimentali con partner che categoricamente disconfermano il nostro amore, ci si immerge in progetti fallimentari fin dal principio, ci ritroviamo in ambienti lavorativi costantemente inappaganti e svalutanti.

Si finisce col ridefinire progressivamente l’immagine di noi stessi sulla base di questi fallimenti, di queste peculiari sofferenze, sino a cadere nell’illusione – forse in parte rassicurante – di essere sfortunati bersagli delle ire di qualche sadica divinità o, banalmente, di essere delle calamite per la sfiga.

I vissuti relazionali e i progetti vitalizi inevitabilmente influenzano, con i loro sviluppi e con i loro esiti, la percezione che abbiamo di noi stessi: ma c’è in essi una certa instancabile e a tratti spaventosa ripetitività che in qualche modo può risuonarci come un campanello d’allarme, come spia della possibilità che forse il Destino o la Divina Provvidenza poco c’entrano nel regolare le sorti e le direzioni delle nostre vite in questo mondo.

E se esistesse una circolarità viziosa nell’ambito della definizione di sé? Se forse non fossero solo le esperienze a forgiare la nostra identità ma fosse la nostra identità stessa a ricercare quelle situazioni, a calamitare quelle persone che in qualche modo contribuiscono a confermare l’idea che abbiamo di noi stessi? A confermare, in definitiva, la natura stessa del nostro personalissimo dolore?

Una ragazza può sentirsi di poco valore nell’ambito di una relazione sentimentale, memore di un passato di tradimenti perpetrati da differenti partner: può forse avere contribuito anche lei alla ricerca di quelle persone che, con la loro infedeltà e scarsa attenzione alla loro vita emotiva, riconfermassero il suo personale vissuto di ragazza di poco valore?

Un adolescente può provare un grande difetto di autostima, un senso pervasivo di vuoto, costantemente preso in giro e schernito dai suoi amici e compagni: può essersi forse ricercato quelle compagnie e quegli ambienti che appagassero la sua peculiare “fame” di sofferenza?

Un giovane adulto, per dimostrare a se stesso e a gli altri il proprio valore, si lancia costantemente in progetti ambiziosi che categoricamente si rivelano fallimentari: che forse non voglia uscire dal proprio vissuto di fallimento ma anzi lo voglia riconfermare gettandosi a rotta di collo in situazioni inevitabilmente senza uscita?

Sono tutte domande che in qualche modo mi sono trovato a porre, cercando di mettere in discussione quel vissuto così comunemente esperito di senso di impotenza di fronte agli insulti dell’esistenza.

Sono domande che non mi pongo solo io in questo scritto (fortunatamente) ma che rappresentano snodi importanti del pensiero psicologico classico e contemporaneo.

Il tema della ripetizione delle esperienze dolorose è un qualcosa che, come spesso succede nella scienza psicologica, ha una breve storia (dalle prime formulazioni freudiane del concetto di coazione a ripetere – vedi infra – alle concettualizzazioni moderne di schema di comportamento (Young) – approfondimento delle quali rimando al lettore più incuriosito) ma un antichissimo passato, che affonda le proprie radici nel Dharma buddhista.

 

È questo peculiare incontro di spunti che vorrei prendere in esame in questa sede: il pensiero freudiano e quello buddhista sul tema della ripetizione e della rielaborazione delle esperienze.

Il nostro vecchio Freud, oramai arrivato alla piena maturità del suo pensiero scientifico, imbattendosi nei drammatici casi clinici dei veterani di ritorno dal fronte al termine della Prima Guerra Mondiale, osservò un fenomeno così penoso e doloroso da incrinare alcune sue convinzioni più radicate.

Ebbene il vecchio Freud osservò in questi militari un costante e strenuo tentativo di rivivere le esperienze traumatiche dolorose sottoforma di stereotipie motorie, di comportamenti ripetitivi, di vissuti onirici tormentanti.

Freud chiamò questi fenomeni “coazioni a ripetere”, identificando una modalità forzata di costante messa in atto dei vissuti più difficilmente “digeribili” dalla persona (eventi traumatici soverchianti come bombardamenti, mitragliamenti e, in generale, lo sguardo diretto sulla Morte).

Fu così sconvolto nel notare la presenza di comportamenti così poco funzionali alla sopravvivenza da formulare l’esistenza, al fianco della prima imperante libido (regolatore della vita psichica e della tensione evolutiva della materia vivente), di una forza vettoriale di forza uguale ma con direzione opposta: la pulsione di morte.

Freud in questo modo, con un ardito e sostanzialmente esistenzialista atto speculativo, riponeva lo scontro fra le pulsioni all’interno dell’ancestrale battaglia mitica fra Eros e Thanatos, Amore e Morte.

La coazione a ripetere, in questo senso, si inseriva all’interno delle pulsioni di morte come impulso al ritorno ad una forma della materia il più possibile inerte, statica – morta. Una tensione dell’organico all’inorganico: affascinante.

Per quanto suggestiva questa immagine, la concettualizzazione del ritorno all’inerzia come tensione alla morte non si rivela molto funzionale nella comprensione dei fatti umani (e in generale biologici) più comuni.

La stasi, in una prospettiva biologica, più che come morte potrebbe, di fatti, essere considerata un accomodamento all’ambiente, una forma di adattamento: un organismo in cambiamento immerso in un ambiente in costante cambiamento tenterà, fisiologicamente, di adattarsi alle condizioni esterne, alla ricerca della massima stabilità. Cominciamo ad addentrarci in un terreno meno speculativo e più fattuale.

 

Ma perché allora la sofferenza? È qui che la nostra attenzione si sposta sugli insegnamenti del Gautama, ed in particolare sul concetto tutto buddhista di “attaccamento”.

L’esperienza imprime nella nostra memoria un rassicurante imprinting, un’illusoria sensazione di possedimento ma soprattutto di completa sovrapposizione fra la realtà psichica ed esterna.

Il Buddha porta la nostra attenzione su questo vissuto illusorio, invitandoci a diffidare della naturale tendenza a considerare come veri e reali i fatti mentali: l’attaccamento è in poche parole questo, l’idea di possedere qualcosa di fisso e immutabile (in senso concreto) in un mondo in continua evoluzione, dove le cose sono destinate naturalmente a nascere e morire, avere inizio e avere fine.

L’attaccamento, grande bersaglio della disciplina sapienziale buddhista, condiziona allora quasi naturalmente l’adattamento, tanto che tendiamo, nella nostra vita, a ritornare in quelle situazioni così impresse nella nostra mente anche qualora non siano più presenti nella realtà in una forma che ci permetta di raggiungere l’armonia e la felicità.

Ancora più a fondo, siamo così attaccati a quelle scolpite immagini mentali, belle o brutte che siano, da ricercare nel mondo quelle situazioni che si adattino ad esse, del tutto ignari delle perniciose conseguenze o della disfunzionalità della scelta.

Un ultimo passo: le esperienze felici e dolorose inscritte nella nostra memoria e che definiscono la nostra identità in qualche modo guidano le nostre azioni alla volta di situazioni a loro consone, in un continuo ripetersi.

Ripetere vuol dire trovare la stasi: e nell’ineluttabilità del cambiamento e l’indifferenza della Natura, trovare la stasi (anche quando non corrisponde per forza a trovare la felicità o quantomeno la serenità) rappresenta già un bel traguardo.

Ecco che allora ci siamo: la profonda semplicità del pensiero buddhista ci permette di uscire dalle pastoie speculative dell’ultimo Freud, permettendoci altresì di ritornare a quel primo Freud che, in rifermento ai pazienti isterici, diceva di loro che soffrivano di reminiscenze: potremmo azzardarci ad estendere questa semplice e bellissima verità alla condizione umana in un senso più allargato e più vicino alla dimensione quotidiana.

Dal ripetere le esperienze, una dimensione in parte inconscia che spesso rappresenta il nostro particolare modo di vivere (e di far sopravvivere) la sofferenza, la tensione si indirizza al rielaborare le esperienze, presenti e passate, ugualmente importanti nel definire la nostra personalità nel mondo – si può tranquillamente dire che è proprio questo passaggio uno degli obiettivi essenziali e peculiari delle pratiche psicoterapeutiche in generale.

Questo breve contributo, tutto fuorché esaustivo circa un tema che potrebbe intrattenere dibattiti infiniti, vuole essere, in questa sede, tutt’altro che speculativo, ma banalmente pratico: nel tentativo di portare uno spaccato dell’esistenza umana più comune osservato da un punto di vista esterno, un po’ decentrato.

Il tentativo è di indirizzare l’attenzione sulla possibilità di essere in buona parte responsabili noi stessi anche delle situazioni di vita dolorose apparentemente più ineluttabili ma soprattutto sulla concreta possibilità, sulla scorta di questo, di prendere in mano le redini della nostra vita e di sforzarci di uscire da quei loop viziosi che tanto ci rasserenano nella loro ripetitività quanto ci fissano nella nostra più naturale ricerca della serenità e dell’armonia con noi stessi.

In questo opus magnus di scoperta e maturazione del Sé, infine, può essere utile ridefinire ciò che la tradizione psicoanalitica definisce inconscio come ciò che meccanicamente la nostra indole biologica ci spinge a cercare o a desiderare in virtù di una spinta adattiva: diviene allora necessario fare chiarezza sulle profonde motivazioni al fondo del nostro animo al fine di maturare un maggior controllo sulle nostre vite, evitando il più possibile di farsi trascinare avanti dalla sicurezza dell’abitudine o dalla statica semplicità della ripetitività.

Mai darsi per scontati: in ultima istanza, fra gli insegnamenti più importanti di Freud e di Buddha.

 

Per approfondire:

Freud S., Al di là del principio di piacere, in S. Freud, Opere, 12 voll, Boringhieri, Torino, 1976-1980, vol. IX

Jung C. G., La saggezza orientale, Bollati Boringhieri, Torino, 1983

Epstein M., Pensieri senza un pensatore, Astrolabio, Roma, 1996

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Davide Parlato
Laureato con Lode in Psicologia Clinica, dello Sviluppo e Neuropsicologia presso l'Università di Milano-Bicocca, psicologo abilitato e attualmente in formazione come psicodiagnosta presso lo Studio Associato di Psicologia Clinica A.R.P. (Milano). Lavoro al momento nell'educativa scolastica e, come psicologo, con ragazzi con difficoltà scolastiche e disturbi specifici dell'apprendimento. Sono cofondatore del progetto Cultura Emotiva. Oltre alla Psicologia, all'Arte e alla Cultura sono un grande appassionato di musica: la chitarra, che suono da 9 anni, è un'importante parte della mia vita emotiva. Contatto: davide.parlato93@gmail.com

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