Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa all’interno del discorso sociale: tra separazione ed appello all’Altro

Cibarsi dovrebbe essere per eccellenza uno dei gesti umani più intriso di istintualità, erede diretto della nostra parte più animale. Si nasce con l’istinto della fame, è una delle poche cose che non deve essere imparata, ma che c’è e basta, c’è da sempre. Da un punto di vista biologico-evoluzionista, non potrebbe essere altrimenti per garantire la sopravvivenza di una specie. Si assume cibo per nutrirsi, per permettere ai vari organi di svolgere il lavoro per cui sono stati concepiti, per poter crescere e cambiare adattandosi all’ambiente, per avere energie che permettano il movimento, per far funzionare un corpo.

Eppure il rapporto dell’uomo con il cibo non è mai così semplice e lineare da poter essere esaurito nel discorso biologico. L’atto di mangiare non coincide mai totalmente con quello di nutrirsi, ma lo supera, lo oltrepassa. Non è solo dal corpo che nasce la fame e non è solo per il corpo che si assume del cibo. Al contrario, mangiare implica sempre una componente anche sociale.

È questo lo scacco che distingue la dimensione animale da quella umana. La dimensione animale segue il soddisfacimento degli impulsi primari. Impulsi che implicano una relazione unidirezionale fra animale stesso ed oggetto.  L’uomo al contrario, anche nel suo rapporto con l’oggetto, è sempre immerso all’interno di un discorso sociale, che lo mette in relazione, e al contempo lo fa dipendere, da altre soggettività.

Il gesto di nutrirsi nasce infatti come gesto intersoggettivo, dialettico. Fin da neonati, quando il cibo viene fornito dal seno materno, l’atto di mangiare include anche una dimensione di incontro, di comunicazione, di scambi di sguardi, di relazione con l’altro. È infatti durante l’allattamento che nascono nel bambino le prime rudimentali forme di comunicazione primaria:  l’alternanza dei turni di suzione e pausa permette l’instaurarsi di una coordinazione della interazione. Durante le pause tra una poppata e l’altra, la madre interviene e “parla” al bambino richiamando il suo sguardo e la sua attenzione su di lei, rendendo quindi possibile una forma di dialogo non verbale (Stern, 1974; Kaye, 1977).

Cibo, parola e relazione sono quindi tre concetti intrinsecamente legati. La cucina stessa, intesa come tradizione culinaria, mette bene in evidenza questa radice culturale, sociale, dell’alimentazione. Attraverso il sapere gastronomico, l’elemento alimentare viene filtrato dalla manipolazione, e dunque strutturalmente deviato dalla sua dimensione naturale, biologica. L’artificio umano investe l’alimento di un significato altro: non si mangia solo cibo, non si mangia solo per cibarsi.

Secondo Lèvi-Strauss (1990) il solo passaggio da crudo a cotto degli alimenti, segna l’operazione simbolica attraverso cui nel convivio la cultura si sostituisce alla natura. Il cibo quindi non è puro oggetto consumato per uno scopo funzionale, ma è sempre anche un tramite all’interno di una rete di rimandi che lo colorano di diversi significati, che lo collocano in relazione ad altre soggettività.

In questo senso -letterale- puo` essere letta la frase di Lacan (1974) secondo cui: “Si mangia sempre alla tavola dell’Altro”, poiché è nel campo dell’Altro, nel campo dell’intersoggetività, che si inscrive il gesto di mangiare. Allo stesso tempo, l’ingestione del cibo che viene offerto dall’Altro, coincide con una risposta di accettazione: ciò che prima era esterno diventa interno, ciò che prima era non-sé diventa una parte di sé. Siamo in fondo veramente ciò che mangiamo.

È proprio questa dimensione sociale del convivio che viene messa alla prova dalle anoressiche-bulimiche: esse rompono la regola generale della convivialità. Nei disordini alimentari “la tavola dell’Altro viene disertata e le sue regole offese: l’anoressica col suo rifiuto radicale del cibo e la bulimica nella sua voracità senza fondo, mettono in risalto la rottura della commensalità con l’Altro” (Recalcati, 1997). In questo senso, “l’anoressica-bulimica tiene la posizione del Giuda al Convivio dell’Altro”, tradendo il legame che unisce la dimensione del cibo con quella della parola, con la cultura, con la dimensione simbolica (Recalcati, 1997).

CONDIVIDI
Articolo precedenteSperimenta il flow
Articolo successivoFidati funziona. L’esperienza del cancro
Sofia Sacchetti
Sono psicologa abilitata in Lombardia, ed esercito la professione come libero professionista. Mi sono laureata in Psicologia Clinica a Pavia e in Research applied to Psychopathology presso l’Università di Maastricht, unendo nella mia formazione l’amore per la pratica clinica e la spinta verso la ricerca. La mia principale area di studio sono i disordini alimentari, tematica che ho incontrato e approfondito in tesi magistrale, sotto la guida del professor Massimo Recalcati, e durante diversi tirocini: in Olanda, con il team di Anita Jansen, e a Londra presso l’unità psicoanalitica di Peter Fonagy. Attualmente mi sto specializzando come psicoterapeuta a stampo psicoanalitico, e sto portando avanti un dottorato di ricerca sul tema della percezione del corpo nei disordini alimentari. Mi occupo di consultazioni e di interventi psicologici rivolti ad Adulti e Adolescenti. Negli ultimi anni ho svolto percorsi di supporto psicologico presso il consultorio del Women Health Information and Support Centre, e presso una Struttura Residenziale Psichiatrica Terapeutico-Riabilitativa. Ricevo privatamente a Milano, ma svolgo anche percorsi online a distanza. Per contattarmi: v.s.sacchetti@gmail.com

ADESSO COSA PENSI?