Musica e linguaggio

Quanto volte abbiamo sentito dire la nota frase “la musica è un linguaggio universale”?

Io tante, forse troppe, e quindi cerco di mettere in ordine i miei pensieri a questo proposito. Sembra essere stato il poeta e scrittore tedesco Berthold Auerbach (1812-1888) a dire per primo “La musica è l’unico linguaggio universale che non ha bisogno di traduzione”. Personalmente, sono d’accordo sul fatto che la musica sia un linguaggio ma non sul fatto che esso sia “universale”.

Basta ascoltare musiche composte con altri sistemi musicali diversi dal nostro, come la musica tradizionale della Costa d’Avorio o della Mongolia, per capire che il linguaggio musicale assume significati molto diversi e difficilmente comprensibili da cultura a cultura. Pensandoci bene però non saprei neanche dare una definizione di musica e, per quante ne abbia sentite, nessuna di quelle che ho incontrato mi ha mai soddisfatto.

Tornando alla nostra frase di partenza possiamo riconoscere che musica e linguaggio sono senz’altro accomunate dal fatto di essere entrambe forme fondamentali della comunicazione dell’essere umano. Così come le conosciamo sono fenomeni specifici dell’Uomo e in qualche misura universali, nel senso che non compaiono in altre specie animali e che si ritrovano in tutte le culture umane.

Le neuroscienze e la psicologia cognitiva sono molto interessate al rapporto tra questi due domini, per quanto riguarda le similitudini e le analogie che li contraddistinguono. Per comunicare attraverso la musica e il linguaggio infatti, gli umani si basano sull’apprendimento di complesse sequenze uditive che impattano drammaticamente su funzionamento psicologico e sull’anatomia funzionale del cervello.

Il professor Aniruddh D. Patel, che da anni si occupa del rapporto tra musica e linguaggio dal punto di vista delle neuroscienze cognitive, nel suo libro “La musica, il linguaggio e il cervello” sostiene, tra le altre cose, che entrambi i domini si basino su categorie sonore apprese: il linguaggio su categorie sonore create da contrasti timbrici, che danno origine a vocali e consonanti, la musica su categorie formate da contrasti di altezze, che generano intervalli e accordi.

È un dato di fatto che sia il linguaggio che la musica inducono processi di plasticità neurale, cioè cambiamenti strutturali e funzionali nel cervello prodotti dall’esperienza. L’esercizio di un dominio infatti, modifica il cervello e la mente alterando l’elaborazione dell’informazione per quel determinato ambito. Nulla di strano, ad esempio: prima il bambino non sa leggere poi, esercitandosi per molti anni, impara a leggere sempre meglio sempre più rapidamente e la stessa cosa vale per imparare a suonare uno strumento o a cantare. Questi cambiamenti nel comportamento dipendono dell’esperienza e dall’esercizio, le quali hanno modificato il cervello in modo tale da rendere possibili quelle performance prima impossibili. Si tratta di plasticità infra-dominio.

La cosa interessante però è che un corpo sempre più crescente di studi empirici e neuroscientifici sta portando alla luce il fatto che tra musica e linguaggio si verifichi un processo di plasticità cross-dominio, per cui il potenziamento di un dominio, come lo studio musicale, può impattare sullo sviluppo di un dominio differente, come quello del linguaggio. È stato infatti appurato che la pratica musicale può modificare il modo in cui il cervello processa il discorso.

Nel corso degli anni di studio infatti, i musicisti imparano sempre più a prestare attenzione ai dettagli acustici dei suoni musicali. Questi includono l’altezza, il tempo e il timbro, tre componenti base in cui qualunque suono che raggiunge l’orecchio umano, sia esso un suono di tipo musicale o linguistico, può essere scomposto. L’altezza si riferisce all’organizzazione del suono su una scala ordinata dal basso verso l’alto e rappresenta la percezione soggettiva della frequenza di un suono. Ad esempio, le note comunemente dette “basse” e “alte”. Il tempo si riferisce a specifici momenti del suono, come l’attacco e il decadimento, mentre il timbro riflette la qualità del suono ed quella caratteristica che ci permette di distinguere uno strumento dall’altro attraverso il suono che producono. Rispetto ai non musicisti, i musicisti mostrano un vantaggio nell’elaborazione del dell’altezza, del tempo e del timbro, tutti aspetti che risultano fondamentali per l’elaborazione acustica del linguaggio.

Oltre a queste analogie a livello acustico, musica e linguaggio hanno importanti similitudini anche a livello cognitivo: entrambi richiedono simili abilità di memoria e attenzione così come l’abilità di integrare eventi acustici discreti, le note o le parole, in un flusso percettivo coerente che rispetti specifiche regole sintattiche. Lo studio musicale implica inoltre un elevato carico per la memoria di lavoro, nonché la formazione di abilità di attenzione selettiva e apprendimento implicito delle regole acustiche e sintattiche che legano i suoni tra loro. Queste abilità cognitive sono cruciali per l’elaborazione del discorso e ne risulta che anni di impegno attivo con i dettagli acustici dei suoni musicali può portare ad un’elaborazione potenziata nei domini del linguaggio e del discorso.

Oltre che essere un interessante argomento di indagine per i neuroscienziati e gli studiosi della mente, comprendere più a fondo il rapporto tra musica e linguaggio può avere anche notevoli implicazioni in contesti educativi. Si è visto infatti che i musicisti sono più più bravi dei non musicisti ad imparare a incorporare in parole i pattern di suoni di una lingua sconosciuta, probabilmente grazie ai cambiamenti strutturali e funzionali che la musica produce sul cervello.

Inoltre i bambini che studino musica hanno un vocabolario maggiore e migliori abilità di lettura rispetto ai bambini che non ricevono un’educazione musicale, suggerendo quindi dei vantaggi nei compiti linguistici della vita quotidiana. I musicisti sono anche più abili dei non musicisti a discriminare il linguaggio in condizioni di rumore e mostrano una più efficace memoria di lavoro.

Infine, la formazione musicale può agire come un fattore di protezione per alcune patologie del linguaggio di origine neurobiologica, come ad esempio la dislessia. Adulti dislessici musicisti, infatti si comportano meglio di adulti neurotipici e di adulti dislessici non musicisti in una serie di prove linguistiche. La messa a punto di particolari strategie di insegnamento musicale sta quindi suscitando un interesse crescente ed aprendo nuove importanti prospettive educative e riabilitative.

 

Bibliografia:

  • Aniruddh D. Patel. La musica, il linguaggio e il cervello. Giovanni Fioriti Editore 2014.
  • Nina Kraus and Bharath Chandrasekaran. Music training for the development of auditory skills. Nature Reviews. Neuroscience. Volume 11, August 2010 p. 599-605.
  • Barrett, K. C., Ashley, R., Strait, D. L. & Kraus, N. Art and Science: How Musical Training Shapes the Brain. Fron.Psychol. 4, 713 (2013).
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Lapo Attardo
Nasco a Milano nel novembre del 1985 e dopo una laurea in informatica a indirizzo musicale vengo attratto da quelle che saranno due mie grandissime passioni: la psicologia e la musicoterapia. Mi diplomo in canto presso i Civici Corsi di Jazz e mi formo in musicoterapia presso il Centro di Musicoterapia di Milano e il Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense dell'Università di Pavia. Nel mentre faccio diversi lavori: il cameriere, il maestro di musica con i bambini, l'educatore con utenti disabili; tutte grandi esperienze. Ora sto concludendo la formazione in Psicologia Clinica e Neuropsicologia, lavoro come musicoterapista presso strutture sanitarie lombarde e collaboro a progetti di ricerca scientifica sugli effetti della musica e della musicoterapia. La musica è ancora un divertimento e mi esibisco in eccentriche formazioni di musica vocale. Contatti: attardolapo@gmail.com

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