Articolo di Francesco Latini

 

Dio li benedisse e disse loro:

«Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra».

(Genesi 1,28)

Oh Rotten Gotham! Sliding Down into the Behavioral Sink” – Tom Wolfe

In questi giorni quasi estivi, prendere la metropolitana diventa sempre più una prova di coraggio e resistenza, in cui il sovraffollamento, il sudore e l’aria condizionata contribuiscono a creare esalazioni malsane e pensieri negativi, tra i quali un lapidario: “siamo troppi”.

In effetti, in un recente articolo pubblicato su “Il Tascabile”, Michielin snocciola una serie di dati sconfortanti per cui, se fino all’1800 si contavano circa un miliardo di persone nel mondo, oggi sono oltre 7 e, nel 2100, sfonderanno il numero di 11: insieme a stili di vita sempre più energivori, ai problemi legati al cambiamento climatico, all’erosione del suolo fertile e allo storico problema della sicurezza alimentare, il problema demografico rischia di costituire l’ultimo tassello per il disastro ecologico ed il collasso dell’umanità.

Ad aggravare ulteriormente la marea dei miei pensieri ci hanno poi pensato alcuni miei amici del Politecnico di Milano, impegnati nello svolgimento di un progetto in “Energy modelling and scenarios” finalizzato all’individuazione di soluzioni per ridurre il surriscaldamento climatico: infatti, secondo il Dynamic Integrated model of Climate and Economy (DICE, uno dei modelli più semplici ed utilizzati nel settore), ci si aspetta intorno al 2100 un incremento di 3.4 C° rispetto alla media di temperatura del XX secolo.

Una bella patata bollente, che hanno provato a risolvere appellandosi al programma spaziale di Elon Musk, il fondatore di Tesla e Space-X, e proponendo di trasferire parte della popolazione mondiale su Marte: sfortunatamente, secondo i loro modelli, anche se 100 milioni di persone colonizzassero entro il 2100 il Pianeta Rosso, la temperatura sulla Terra sfonderebbe comunque i 3 C°. Le conclusioni? Siamo troppi, e dobbiamo risolvere il problema qui, sul Pianeta Azzurro.

Tutto molto interessante, potreste pensare, ma tutto ciò cosa c’entra con la Psicologia? Per rispondere, occorre introdurre John B. Calhoun, il cui articolo “Population Density and Social Pathology” (1962) è considerato da alcuni come uno dei 40 studi più influenti nella storia della Psicologia, al pari dei lavori di Freud, Pavlov, Milgram, Zimbardo ed altri. Calhoun, come molti altri ricercatori degli anni ‘60, era interessato ad indagare l’impatto del sovraffollamento sul comportamento sociale e, utilizzando come cavie dei roditori, sviluppò nel corso degli anni una serie di “universi” sperimentali sempre più complessi ed articolati, descritti come dei Paradisi od Utopie per topi che tuttavia, in breve tempo, si trasformavano tutti in Inferni e Distopie. Tra questi, il più conosciuto per il suo impatto socioculturale è “Universo 25”, costruito nel 1970.

https://www.youtube.com/watch?v=WBuX4leqAiQ

Nella ricerca del 1962, Calhoun sviluppò un universo sperimentale dalle dimensioni di circa 3,04 x 4,27 metri, diviso in 4 sezioni (vedi la figura sotto): attraverso delle rampe i topi potevano passare dalla sezione 1 alla 2, dalla 2 alla 3, e dalla 3 alla 4, mentre non era possibile passare direttamente dalla 1 alla 4 (erano quindi delle “sezioni cieche”); inoltre, le pareti divisorie erano elettrificate per cui i topi imparavano presto a non scalarle ma ad usare le rampe.

L’universo era privo di predatori, regolarmente pulito e dotato di temperatura costante (20 C°), acqua e cibo erano abbondanti e sempre disponibili, così come il materiale ed i ripari per costruire i nidi. L’unica restrizione ero lo spazio: Calhoun sviluppò l’universo in modo che potesse ospitare adeguatamente 48 individui, 12 per sezione (dove 12 è la dimensione standard di una colonia per la varietà di topi scelta).

Dopo averli liberati nell’universo, Calhoun osservò il loro comportamento per 16 mesi con il solo accorgimento di togliere i nuovi nati che sopravvivevano allo svezzamento una volta che il numero di individui giunse a quota 80 (quindi, quasi doppia rispetto al numero “comfort”) in modo da mantenere il sovraffollamento costante.

Ben presto, i maschi incominciarono a lottare tra loro per acquisire il ruolo di alpha, come avviene anche in natura. Gli scontri avvennero in tutte le sezioni, ma gli esiti non furono tutti uguali. Nelle sezioni “cieche” (1 e 4), con una solo entrata da controllare, i vincitori riuscirono a mantenere e presidiare il territorio semplicemente attaccando ogni altro maschio che provasse ad entrare costituendo degli harem di circa 8 – 12 femmine, che preservarono le loro capacità materne garantendo a più di metà della prole di raggiungere l’età adulta.

In sostanza, nelle sezioni cieche, i topi si comportarono come tali anche se gli alpha risultavano molto aggressivi per la continua necessità di fare la guardia all’entrata. Fu nelle sezioni “centrali” (2 e 3) che invece si stiparono i circa 60 topi restanti, determinando una situazione di estremo sovraffollamento, eccessiva interazione sociale e lotta continua per i pochi ruoli sociali presenti, comportando un progressivo collasso sociale e quello che Calhoun chiamò “fogna del comportamento” (o behavioral sink): “il risultato di qualsiasi processo comportamentale che porta a radunare insieme gli animali in numeri insolitamente grandi. Le connotazioni malsane del termine non sono casuali: una fogna comportamentale agisce per aggravare tutte le forme di patologia che si possono trovare all’interno di un gruppo”.

In particolare, per l’eccessivo sovraffollamento la lotta per la supremazia si trasformò in una guerra senza quartiere portando i maschi più forti, tutto sommato i più sani all’interno di queste sezioni, ad esplosioni di rabbia cieche ed indiscriminate (“going berserk”) dovute all’eccessivo stress per l’impossibilità di gestire le interazioni sociali. Altri maschi, definiti “I Belli”, si ritirarono psicologicamente sopravvivendo solo in un senso meramente fisico: rinunciarono alla lotta, all’accoppiamento e all’interazione sociale, limitandosi a mangiare, dormire e lisciarsi il pelo.

Altri ancora, con il collasso dell’ordine sociale, svilupparono invece un comportamento ipersessualizzato e, non curanti dei rituali di accoppiamento, si abbandonavano a stupri, cannibalismo nei confronti dei cuccioli e scontri con i maschi più forti che eventualmente accorrevano in soccorso; infine, alcuni maschi manifestarono invece un comportamento pansessuale, cercando di montare indiscriminatamente maschi e femmine, giovani ed adulti.

Le femmine, prive di Alpha di riferimento e costantemente molestate, si tramutarono progressivamente in quelle che Calhoun definì “Amazzoni”: femmine aggressive, incapaci di portare a termine le gravidanze e di prendersi cura della prole: i nidi caddero in rovina ed i cuccioli furono abbandonati al loro destino, con tassi di mortalità tra l’80 ed il 96%.

Uno scenario cupo e raccapricciante: ancora più oscuro se pensiamo che gli universi realizzati da Calhoun vanno ben oltre il centinaio, tutti più o meno con lo stesso esito. In realtà, nei suoi ultimi studi l’autore ha cercato di favorire una visione più ottimistica dei suoi risultati, realizzando anche universi parzialmente diversi, ma l’eco di questi lavori è stato decisamente minore.

Forse state pensando che questi risultati non siano generalizzabili, che gli uomini sono ben più complessi dei roditori e che il sovraffollamento, per quanto grave, non potrà portarci ad una sorta di psicosi collettiva.

Personalmente, non posso fare a meno di notare certi parallelismi tra ciò che è stato descritto da Calhoun nei suoi studi e la lotta sempre più marcata, almeno in Occidente, tra i giovani che spalleggiano per trovare il loro posto nel mondo e gli anziani che il loro posto non vogliono abbandonarlo, per non parlare della progressiva erosione a cui sembrano andare incontro i legami sociali (vedi, ad esempio, i divorzi) ed i rapporti umani (c’è chi dice che ci troviamo di fronte ad un vero e proprio narcisismo epidemico).

Ma qualcuno potrebbe considerarmi un conservatore e sostenere che comunque prendere dei risultati ottenuti sugli animali per trarre delle conclusioni sull’uomo è un’operazione rischiosa: dato che per motivi etici non possiamo abbandonare degli esseri umani su, che ne so, un’isola, lasciarli moltiplicare e vedere cosa succede, sostanzialmente non possiamo che rimanere nel campo della speculazione. Sfortunatamente, esiste un caso ecologico che può ben descrivere quello che potrebbe succedere se la bomba demografica non sarà disinnescata, e viene da una remota isola del Pacifico: Rapa Nui.

https://www.youtube.com/watch?v=YWdx-WBkVJM

Intorno all’anno 1000 d.C., alcuni polinesiani sbarcarono su quest’isola più piccola dell’Elba trovandovi un Paradiso Terrestre: completamente ricoperta di vegetazione, priva di predatori e dotata di una numerosa fauna endemica, quel luogo rappresentava per loro un posto ideale nel quale stanziarsi.

Fino al 1200 la popolazione rimase in sostanziale equilibrio con il fragile ecosistema ma l’esigenza di erigere enormi statue di pietra (i Moai) e nuove ondate migratorie portarono ad un disboscamento intensivo e ad un boom demografico. Intorno al 1400 la popolazione raggiunse il picco dei 15-20000 abitanti ed il collasso ecologico fu a quel punto inevitabile: senza più foreste non poterono più essere costruite nuove imbarcazioni, il suolo si erose e perse fertilità, senza cibo e sovrappopolata la società collassò, le grandi statue di pietra vennero abbattute e dilagò la guerra civile ed il cannibalismo.

Quando gli europei giunsero sull’Isola nel giorno di Pasqua del 1722, meno di 3000 isolani malnutriti erano sopravvissuti, aggrappati a Tangata Manu (il culto dell’“Uomo Uccello”) che, sostituiti i Moai, forse incarnava il desiderio di fuga da quel Paradiso tramutatosi oramai in un Inferno.

Purtroppo per l’uomo, il problema del “behavioral sink” è tutt’altro che lontano ed ipotetico: occorre cominciare a riflettere seriamente sul nostro problema demografico e sul nostro impatto ambientale. Altrimenti, il collasso sarà inevitabile e, con esso, anche parte della nostra umanità.

 

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