Era il 27 luglio 1890 quando, immerso tra i tormenti di uno dei suoi campi di grano ad Auvers-sur-Oise, Vincent van Gogh decise di premere il grilletto di una rivoltella premuta contro il suo petto. Più tardi tornò al caffè-locanda Ravoux, dove alloggiava, e, a sguardo basso e petto coperto, si rifugiò in camera sua. Durante il pranzo, però, la sua assenza non riuscì a passare inosservata, e fu così che i coniugi Ravoux, proprietari della locanda, lo ritrovarono disteso a letto sanguinante.

Venne chiamato d’urgenza il dottor Gachet -omeopata, medico, socialista, libero pensatore, appassionato di psichiatria e artista lui stesso amatoriale-, il quale, non potendo estrarre il proiettile, si limitò ad applicargli una fasciatura. Vincent morì due giorni più tardi, il 29 luglio 1890, dopo aver trascorso la giornata precedente, fumando la pipa e chiacchierando seduto sul letto con il fratello Théo.

Nelle ultime ore di vita, Vincent si rifiutò di dare spiegazioni del suo gesto ai gendarmi, ma al fratello Théo avrebbe confidato che la sua tristezza non avrebbe mai avuto fine e che quindi il suo unico desiderio era quello “di ritornare”. Dove non lo specificò, ma tanto bastò per farlo seppellire da suicida.

Secondo una lettura più recente, e forse più arabescata, della vicenda, l’artista sarebbe stato ferito in realtà da un colpo partito accidentalmente dalla pistola di un ragazzino. Ma, non troppo lontano dalla prima versione, durante le ore di agonia, avrebbe deciso di non denunciare il giovane, accogliendo la morte come una liberazione dalla sua depressione. Un suicidio per inerzia (Cescon, 2013).

Uccidersi o lasciarsi morire. La linea di confine è sottile e tutto sommato poco rilevante. Ciò che importa è che l’autore aveva preferito la morte alla vita, o, forse meglio, la morte al dolore.

Sono passati ormai 127 anni dalla notte in cui Vincent van Gogh esaudì il suo desiderio “di ritornare”, eppure il suo nome -van Gogh- continua a rimbombare nelle nostre orecchie. Non solo come icona artistica, ma anche come esempio di malattia mentale: di come espressione e follia, creazione e tormento, possano legarsi diventando vita.

“Senza paura e malattia la mia vita sarebbe una barca senza remi” affermava Munch (Cricco & Di Teodoro, 2007). E infatti il gesto creativo diventa, per molti artisti, ciò che permette di saturare la mancanza di senso della vita -il non-senso-, di sopravvivere mantenendo il dolore come compagno di viaggio. A volte toccando punte di felicità, a volte perdendosi in esso. “Vorrei scriverti molte cose ma ne sento l’inutilità […] per il mio lavoro io rischio la vita e ho compromesso a metà la mia ragione” aveva scritto van Gogh nell’ultima lettera mai spedita al fratello Théo (Cescon, 2013).

Dopo la morte, la figura di van Gogh è stata dissezione da tutte le parti nel tentativo di fare un’accurata autopsia della sua mente. Oltre centocinquanta psichiatri hanno tentato di classificare i suoi disturbi, con il risultato di circa trenta diagnosi diverse. Esse includono la schizofrenia, il disturbo bipolare, la sifilide, l’avvelenamento da ingestione di vernici, l’epilessia del lobo temporale e la porfiria acuta intermittente, con l’aggravante della malnutrizione, del lavoro eccessivo, dell’insonnia e del consumo di alcool, in particolare di assenzio (Blumer, 2002).

Un vivace dibattito diagnostico, nel tentativo di trovare la parola più giusta per descrivere il dolore dell’artista. Ma, come spesso accade, per raccogliere il senso di una vita o di un dolore, una parola sola non basta.

Mi piacerebbe allora fermarmi su un suo dipinto, non uno dei più famosi, ma uno dei più analizzati. Mi riferisco all’opera “Un paio di scarpe” (Van Gogh Museum, Amsterdam, 1886). Due scarponcini neri su sfondo scuro, consumati, vissuti, incrostati. Il primo a soffermarsi su quest’opera fu il filosofo Heidegger (1950) che, nel tentativo di definire l’essenza dell’arte, aveva identificato queste scarpe come quelle di una contadina usate per lavorare nei campi.

Seguirono però non poche critiche alla sua interpretazione. Schapiro, in particolare, osservò come quelle scarpe non sembrassero un capo femminile, bensì era più probabile pensare appartenessero all’autore stesso. Eccole sulla tela, le scarpe di van Gogh, le stesse con cui si arrampicava fra i tormenti dei suoi campi di grano. Tormentate anche loro e coperte di fango. Ma perché van Gogh ci mostra le sue scarpe? Cosa vuole dirci tramite esse? Cosa sta oltre all’evidenza della tela?

È da queste domande che sarebbe nata una successiva interpretazione del quadro: le scarpe non solo sono dell’autore, ma sono esse stesse l’autore. Una forma di autoritratto. Gli oggetti che van Gogh ci mostra -i girasoli, la sua sedia, il letto, i campi di grano, le scarpe- altro non sarebbero che una rappresentazione di van Gogh stesso, mediata dagli oggetti di cui decide di servirsi. E allora risulta essenziale soffermarci sui particolari di questi oggetti per raccogliere cosa di sé van Gogh voleva mostrarci (Rella, 1998).

Guardate bene quelle scarpe, guardate il profilo del piede che dovrebbero contenere, osservatene la forma. Noterete allora che non si tratta di un paio di scarpe qualunque, ma di due scarpe sinistre (Rella, 1998). Seguendo il ragionamento di prima, ci troviamo in questo caso davanti ad un doppio autoritratto. Due Vincent, uno la ripetizione dell’altro, la copia non speculare, bensì identica, del primo. D’altronde, in quanto ripetizione, uno dei due risulta essere inutile, privo di senso. A cosa serve in fondo una seconda scarpa sinistra?

Ma perché nel rappresentare sé stesso van Gogh ci mostra questa immagine? Ecco che qui possiamo recuperare un pezzo di traccia, che dia un senso, un nome, un luogo, a quel dolore che di Vincent tanti hanno cercato di analizzare. Per farlo, bisogna però ricollegarsi alla biografia dell’autore.

C’è infatti un dato incisivo che segnò fin dall’inizio la narrazione di vita dell’artista: Vincent van Gogh nacque il 30 marzo del 1853, esattamente un anno dopo la nascita di un fratello maggiore, nato morto, anche lui chiamato Vincent. (Cricco & Di Teodoro, 2007). Vi erano dunque due Vincent in famiglia: uno vivo, l’altro mai vissuto eppure presente.

Come poteva sentirsi allora il piccolo Vincent quando i genitori lo portavano al cimitero a commemorare il fratello? Cosa poteva pensare nel leggere il proprio nome scritto sulla tomba di fronte a lui?

Qual’era il posto di Vincent? Stava occupando il posto di un altro? Si trattava di una sostituzione? Qual’era il senso suo originale dell’essere al mondo? Sono domande a cui noi non possiamo rispondere, e forse neanche lui era riuscito a farlo. Domande che però ci forniscono una nuova chiave di lettura per capire il buco attorno al quale si sviluppa la personalità di van Gogh, e con essa la sua mano e i tormenti dei suoi campi di grano.

Se Vincent veniva al mondo al posto di un altro, chi era lui? Una scarpa sinistra per un piede destro. La copia di una vita non sua e mai esistita. Ecco il dramma ontologico del suo destino: la ricerca di un’identità per sempre perduta. Ecco uno dei nomi sotto cui definire quel dolore che ha improntato prima la sua vita, poi le sue tele e infine la sua morte. Una scarpa sinistra.

References

Blumer, D. (2002). The illness of Vincent van Gogh. American Journal of Psychiatry159(4), 519-526.

Cannamela A. L. Un bambino in sostituzione. Da: http://www.labrys.it/un-bambino-in-sostituzione.html

Cescon M., a cura di (2013). Van Gogh V. Lettere a Theo. Parma: Guanda.

Cricco G. & Di Teodoro F. P. (2007). Itinerario nell’Arte: Volume 3. Dall’Età dei Lumi ai giorni nostri. Milano: Zanichelli.

Heidegger  M., (1950) a cura di Zaccaria G. & De Gennaro I. L’origine dell’opera d’arte. Milano: Marinotti.

Rella F. (1998). Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo. Milano: Feltrinelli.

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Sofia Sacchetti
Sono psicologa abilitata in Lombardia, ed esercito la professione come libero professionista. Mi sono laureata in Psicologia Clinica a Pavia e in Research applied to Psychopathology presso l’Università di Maastricht, unendo nella mia formazione l’amore per la pratica clinica e la spinta verso la ricerca. La mia principale area di studio sono i disordini alimentari, tematica che ho incontrato e approfondito in tesi magistrale, sotto la guida del professor Massimo Recalcati, e durante diversi tirocini: in Olanda, con il team di Anita Jansen, e a Londra presso l’unità psicoanalitica di Peter Fonagy. Attualmente mi sto specializzando come psicoterapeuta a stampo psicoanalitico, e sto portando avanti un dottorato di ricerca sul tema della percezione del corpo nei disordini alimentari. Mi occupo di consultazioni e di interventi psicologici rivolti ad Adulti e Adolescenti. Negli ultimi anni ho svolto percorsi di supporto psicologico presso il consultorio del Women Health Information and Support Centre, e presso una Struttura Residenziale Psichiatrica Terapeutico-Riabilitativa. Ricevo privatamente a Milano, ma svolgo anche percorsi online a distanza. Per contattarmi: v.s.sacchetti@gmail.com

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