ARTICOLO DI: Silvia Testa

Non tutti sanno che la parola scuola deriva dal greco scholè che significa ozio, riposo. Nell’antica Grecia la scholè era proprio il tempo in cui ci si riposava dalle fatiche della vita quotidiana per dedicarsi allo studio e al ragionamento.

Se pensiamo alla scuola odierna la cosa è abbastanza sorprendente. “Altro che riposo!” direbbe la maggior parte degli studenti: la scuola costa fatica e non sempre ci si va volentieri.

Sebbene il fenomeno del drop out scolastico sia in diminuzione, rimane un’emergenza nazionale perché siamo ancora lontani dall’obiettivo europeo che fissa al 10% il limite massimo di “Early School Leavers“: la media nazionale è del 13,8%.

È davvero impossibile riportare la scuola ad un luogo di ozio per la mente, dove gli studenti siano protagonisti della costruzione del proprio processo di apprendimento, dove si sentano liberi di esprimersi?

Nel film “L’attimo fuggente” il professor Keating, interpretato da Robin Williams, insegna ai ragazzi di un college americano a guardare le cose da angolazioni diverse, a pensare con la propria testa, perché le parole e le idee possono cambiare il mondo.

Il professore trasmette ai ragazzi l’importanza di essere unici, di trovare i propri talenti, principi contrari al conformismo tipico dell’ambiente in cui sono cresciuti. Dopo lo scetticismo iniziale, gli alunni si lasciano coinvolgere dalle lezioni bizzarre del professore, tanto da creare la “setta dei poeti estinti”, un gruppo “clandestino” di poesia, su ispirazione di un’aggregazione simile della quale aveva fatto parte Keating da giovane.

La scuola dovrebbe insignire, lasciare il segno, il che non implica soltanto trasmettere agli alunni nozioni tecniche e contenuti da memorizzare, ma bensì offrire lezioni di vita, aiutare i giovani a costruire le competenze necessarie per avere successo nella vita personale e professionale e a collocarsi in modo proficuo nella società.

Negli ultimi anni nel contesto italiano sono stati mossi diversi passi in questo senso: si pensi all’alternanza scuola-lavoro introdotta nel 2015, che permette agli studenti di testare sul campo le proprie attitudini, oltre ad arricchire la formazione e ad orientare il percorso di studio in vista di un futuro lavoro, ma anche all’introduzione della Lavagna Interattiva multimediale (LIM) nel 2008 e al “Piano Nazionale Scuola digitale” avviato nel 2015.

Queste ultime due iniziative mettono al centro il digitale, rendendolo strumento abilitante verso un’innovazione del mondo scolastico, che deve diventare capace di sfruttare al meglio le potenzialità offerte dalla Rete.

Nonostante queste innovazioni, la scuola italiana è tutt’ora ancorata ai contenuti scritti nei libri di testo, che spesso vengono proposti senza essere analizzati e selezionati criticamente rispetto alle capacità, alle attitudini e agli interessi degli alunni.

Inoltre, molti insegnanti si concentrano sul voto, senza considerare il processo che ha portato a tale risultato. Capita così che ragazzi con DSA, BES o altri bisogni, si trovino a trascorrere ore sui libri per poi ottenere un risultato appena sufficiente.

È vero che esistono le linee guida del Miur alle quali i docenti devono rifarsi per adottare strumenti compensativi e dispensativi, ma comunque spesso gli alunni non si sentono gratificati. Questo perché la nostra scuola si concentra sui contenuti e valorizza soltanto due dei nove tipi di intelligenza individuati da Gardner: quella linguistico-verbale e quella logico-matematica.

Ma cosa ne è degli altri sette tipi di intelligenza? Come è possibile valorizzare i punti di forza di ogni studente e permettere ad ognuno di vivere la scuola come un ozio?

La chiave per realizzare tali obiettivi è la didattica per competenze, uno stile di insegnamento che non trasmette più semplicemente nozioni, dati, formule e definizioni da imparare a memoria: è un modo di “fare scuola” che consente agli studenti di imparare in modo significativo, di fare ricerca e di essere curiosi, di collaborare per risolvere problemi, di progettare in modo autonomo.

In accordo con questa metodologia rientrano i laboratori esperienziali, la peer education, il cooperative learning e tutte quelle modalità che valorizzano l’esperienza attiva dell’allievo, l’apprendimento induttivo, l’assunzione di responsabilità di fronte ai compiti individuali e collettivi.

Alternare le tradizionali lezioni frontali a momenti sempre più frequenti di cooperative learning significa dare l’opportunità agli alunni di auto-organizzarsi all’interno di un gruppo eterogeneo, dove, per ottenere un buon risultato finale, ognuno deve metterci del suo a seconda delle proprie attitudini e competenze.

Il docente passa dall’essere colui che spiega, che deve essere ascoltato senza essere interrotto, ad un facilitatore, che si limita a fornire la consegna per il raggiungimento di un obiettivo e che può essere consultato in caso di dubbi o difficoltà.

Il sapere non viene più trasmesso in maniera unidirezionale dall’insegnante agli alunni, ma gli alunni stessi, mettendo insieme i diversi punti di vista, lo rielaborano selezionando le informazioni che ritengono più appropriate e significative.

L’apprendimento cooperativo non solo rende i contenuti appresi più significativi e persistenti in memoria, ma è spesso accompagnato da un incremento dell’autostima poiché ogni singolo partecipa attivamente al lavoro di gruppo e può ricavarne un feedback positivo.

D’altra parte, la peer education è una strategia didattica dove un alunno fa da “istruttore” ad un compagno che non ha compreso qualche argomento o procedura.

Gli studenti che presentano dubbi di qualsiasi tipo sono più coinvolti se la spiegazione proviene da un loro pari piuttosto che dall’insegnante, sono più disinvolti nel porgli domande e, di conseguenza, è più facile che giungano ad una comprensione completa.

È sbagliato pensare che questa metodologia sia utile solo per coloro che sono in difficoltà: anche gli studenti più preparati per padroneggiare completamente un argomento hanno bisogno di esporre, trasferire i contenuti chiave ad altri; non è forse meglio spiegarli ai compagni piuttosto che ai genitori o ai nonni?

In questa nuova visione della didattica, le competenze sono sempre connesse al concetto di «apprendimento significativo»: l’obiettivo è fornire ai giovani gli strumenti adeguati per collocarsi nella società, trovando un’occupazione in linea con i propri talenti e le proprie capacità.

Verso la fine degli anni Novanta l’OCSE ha individuato le otto competenze chiave sulle quali incentrare l’azione didattica e quella educativa: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare a imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità; consapevolezza ed espressione culturale.

Tali competenze sono quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personali, pongono al centro il valore della diversità come risorsa, poiché se tutti siamo diversi la scuola non può essere uguale per tutti ma deve adattarsi ai bisogni di ognuno.

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