Quando un medico accoglie un paziente ed inizia la raccolta della descrizione dei sintomi pone normalmente una domanda: da quanto tempo si è accorto che…? 

Lo scopo di questa domanda è di individuare non solo il momento ma le circostanze entro le quali un certo disturbo ha avuto il suo esordio. Ciò permette di dare un primo indirizzo generale alla comprensione del disturbo per arrivare ad una diagnosi.

In psichiatria ed in particolare nel caso di disturbi giovanili i genitori rappresentano una fonte importante di informazioni, sia per ciò che dicono che per il modo che hanno di esprimere, al di là delle parole, ciò che hanno compreso del disagio del figlio e le emozioni che vivono.

Molte informazioni non sono state oggetto di attenzione, altre sono state sopravvalutate, altre non sono state trattate con l’importanza che meritavano.

Per osservare efficacemente è necessario sapere cosa osservare e in che direzione osservare.

Quando si tratta di osservare delle persone, in particolare i propri figli, l’ideale sarebbe coniugare la capacità di osservarli contemporaneamente alla capacità di osservare le proprie reazioni.

Certe cose infatti vengono sottolineate o, all’opposto negate, in conseguenza delle emozioni che suscitano in noi. Accade così che le reazioni prevalgano sull’osservazione generando delle risposte che ostacolano la comprensione e la comunicazione.

I figli non imparano solo dalle nostre parole, apprendono molto anche dal nostro comportamento e dal modo con il quale noi rispondiamo alle loro comunicazioni.

Questa modalità è la fonte più importante di informazioni perché in una forma sintetica ed immediata fornisce un esempio circa il modo con il quale una comunicazione può essere accolta. In termini più semplici, se in primo luogo viene data accoglienza nella mente ad una certa comunicazione, cioè se viene registrata con attenzione nel suo pieno significato, e se chi comunica lo fa sotto la spinta di un’emozione, gli fornisce un esempio del modo con cui quella stessa emozione può essere “maneggiata”.

Facciamo un esempio di quello che sto descrivendo impiegando uno scambio abbastanza comune fra figlio e genitore. La richiesta di un consenso per una determinata cosa, un acquisto o una concessione circa un orario di rientro a casa. Cosa c’è in gioco?

Proviamo a “smontare” l’intero meccanismo della comunicazione. Partiamo dal figlio.

1) È animato dal desiderio.

A seconda della forza dell’io, quella caratteristica che si esprime nella capacità di tollerare le frustrazioni, di posticipare la soddisfazione di un impulso, di tollerare i sentimenti negativi, il desiderio presenta una natura più o meno disturbante.

Una personalità ben equilibrata convive con i propri desideri considerandoli delle ipotesi più o meno attuabili accettando tutte le possibilità inerenti al desiderio. Anche se naturalmente la realizzazione di esso viene considerata preferita, la delusione per la sua mancata realizzazione non costituisce una angoscia insopportabile.

2) Con quali attribuzioni i genitori sono rappresentati nella mente del figlio?

Fin dalle prime interazioni con la madre il bambino comincia a farsi un’idea della persona che si prende cura di lui. Ne coglierà, sulla base del comportamento osservato che traccia un’impronta emotiva nella memoria del bambino, l’“affidabilità“ in termini di possibilità di prevederne le risposte, la disponibilità e la reperibilità.

Creerà delle credenze sulla benevolenza o meno della persona, si farà un’idea sulla sua indulgenza o sulla sua vendicatività. Tutto questo apparato di credenze e valutazioni costituirà una base fondamentale sulla quale costruire le relazioni successive ma soprattutto influenzerà come un pregiudizio la rappresentazione dei genitori e il significato della comunicazione con loro.

In parole povere, se mi sono costituito l’idea che mia madre è una persona che ha come scopo principale quello di limitarmi e punirmi, tutti gli inviti da parte sua ad una valutazione più saggia e completa di una mia richiesta verranno tradotti in una intenzione frustrante e punitiva.

Per completezza va detto che in genere la debolezza dell’io, di cui prima ho parlato, va di pari passo con questo modo di rappresentare le persone significative che ho appena descritto e che è ben rappresentato nello stile di attaccamento insicuro.

Fin qui è facile comprendere come una semplice richiesta nasconda molti “tranelli relazionali” ma anche molte occasioni di conoscenza.

Tutto ciò si traduce in una sintesi, l’emozione, che conferisce una coloritura speciale alla relazione generando l’immediato giudizio: buona/cattiva, piacevole/spiacevole.

Passiamo ora ai genitori.

Va subito fatta una premessa, l’essere più vecchi rispetto ai figli non è una garanzia di maggior saggezza e di maggior equilibrio.

Certe difficoltà a trattare con le nostre emozioni possono durare tutta la vita. Certi cambiamenti nella persona non intervengono per “invecchiamento” ma in genere a seguito di eventi che allarmano la persona (se riescono ad allarmarla) mettendo in evidenza la responsabilità della cattiva gestione delle proprie emozioni.

Perciò spesso i genitori, inconsapevolmente, non sono adeguati a reggere certe sollecitazioni emotive prodotte dai figli e rispondono in modo impulsivo complicando ulteriormente il gioco relazionale e facendo procedere il compito educativo fra rotture e riparazioni. Quella che dovrebbe essere una linea idealmente retta finisce per essere un ghirigoro.

Un buon modo di eseguire questo compito sarebbe di aiutare il figlio a esporre le sue buone ragioni per ottenere un si affinché il genitore possa riflettere e scegliere su fatti concreti e non su spinte emotive.

Il dialogo con i figli.

Questa frase è il trionfo dei luoghi comuni. È il consiglio generico per eccellenza, il picco massimo dei consigli senza significato. – Quanta durezza! – dirà il lettore. C’è una ragione.

La psicologia da rotocalco si è nutrita per anni di frasi come queste che suggeriscono impegni su un tema centrale e complesso senza darne altra spiegazione. Con i figli il dialogo c’è sempre, anche quando si chiudono nella loro stanza dopo aver esibito a tavola un silenzio immusonito, in realtà molto eloquente – quanti pensieri e quante domande suscitano questi silenzi! -Molto più di una insistente logorrea.

Perciò il punto è di capire qual è la lingua o le lingue del dialogo. Il problema è comprendere anziché recitare uno sgangherato copione del buon genitore. Per comprendere è necessario ascoltare. Invito a riflettere sulla propria reale capacità di ascoltare.

Quando ci disponiamo ad ascoltare qualcuno dovremmo avere ben chiaro che stiamo ascoltando un’altra mente che produce un punto di vista completamente diverso dal nostro.

Sintonizzarsi su punti di vista diversi necessita di un po’ di allenamento ed il punto di vista dei figli è molto diverso, per ragioni di età, cultura (i gusti e le credenze giovanili) e la specificità dei nuovi desideri.

Perciò calma. Ascoltiamo e cerchiamo di capire cosa ci viene chiesto.

Chi fa il mestiere dello psicoterapeuta sa bene che questa è la prima condizione che deve essere soddisfatta per essere in grado di fare un buon lavoro. Non è una attitudine che possiamo dare per scontata.

Se osserviamo due persone mentre parlano, possiamo notare una serie di disfunzioni che rendono meno efficace la comunicazione. Si possono notare interruzioni, fasi in cui uno “parla sopra l’altro”, repliche basate sul convincimento di aver già capito cosa l’interlocutore intende dire senza avergli fatto completare l’esposizione del suo pensiero.

La macchina delle associazioni di pensiero è sempre all’opera nella nostra mente, una parola detta, non importa da chi, ce ne fa venire in mente un’altra, perciò l’idea di aver avuto una buona intuizione ci può far intervenire precipitosamente nella conversazione.

Aggiungiamo qualche momento di inevitabile distrazione, altri momenti dominati dall’impulso di ripetere insistentemente una cosa come se ciò che l’altro dice non fosse stato mai detto. Si aggiunga inoltre il fatto che non è costante la consapevolezza degli effetti sull’altro di una data comunicazione, in particolare non sempre siamo consapevoli degli effetti che vogliamo ottenere dicendo una determinata cosa.

Ancor più difficile è essere consapevoli delle emozioni che ci animano durante il dialogo. Il dialogo è una costruzione a due che necessita di un impegno partecipativo. La qualità di questa partecipazione costituisce le fondamenta della qualità del dialogo.

Qualcuno dirà: ma allora quando parliamo rischiamo di essere coinvolti in un caos? Siamo come un branco di cani che abbaiano tutti insieme? Le cose non sono fortunatamente così drammatiche.

Intendo solo segnalare che nel corso di un dialogo le possibilità di errori di comunicazione sono varie e si combinano in forma diversa soprattutto in presenza di emozioni forti perciò quando dobbiamo parlare di qualcosa di importante è necessario prestare un po’ più di attenzione, in altre parole, quando la ragione del dialogo è importante lo dobbiamo considerare un compito.

Qualche esercizio per migliorare le nostre capacita di dialogare.

1) Quando avete un momento di cosiddetto “relax” in solitudine, provate a cercare di riconoscere se percepite qualche emozione, provate a riconoscere i pensieri che occupano la vostra mente e se questi pensieri sono associati a delle emozioni.

2) Provate a dare un valore alla forza delle emozioni (leggera, media, forte).

3) Quando un evento vi provoca un’emozione, dopo averla individuata, provate a segnare su un taccuino l’emozione e ciò che essa vi suggerisce: pensieri, cose da dire, azioni da compiere, giudizi. Evitate di agire in qualunque modo.

Quando l’emozione sarà tramontata, provate a confrontare ciò che avete annotato e valutate se a seguito della sollecitazione avuta fareste le stesse cose.

Tutto ciò che di diverso trovate rispetto all’appunto preso in precedenza è ciò che scaturisce dalla vostra mente quando le emozioni non sono così forti da dominare tutta l’attività della vostra mente.

In queste condizioni, confrontando i due punti di vista sarà più facile scegliere cosa è più opportuno fare. Tutti abbiamo fatto l’esperienza di vedere le cose in modo diverso dopo un momento di rabbia, per esempio, quando torniamo calmi. È il famoso “senno di poi” che dovremmo imparare a far diventare una sorta di “senno del mentre”.

4) Dopo aver fatto un po’ di esercizio sui punti precedenti cerchiamo di esercitare la consapevolezza della nostra capacità di ascolto concentrandoci su frasi complete cercando di coglierne pienamente il significato.

Potreste accorgervi che normalmente l’ascolto è superficiale e veloce come quando si legge cogliendo la parola in blocco senza decifrare lettera per lettera al punto che, come è dimostrabile con esperimenti semplici, leggiamo le parole bene anche se qualche lettera è mancante, mentre se la parola è sconosciuta o in una lingua diversa dalla nostra tendiamo a decifrare lettera per lettera.

Ricordiamoci che quanto più l’interlocutore tende a presentarsi come fonte di problemi tanto più avremo una propensione difensiva a pensare a una possibile soluzione anziché concentrarci sull’ascolto.

Questa è una classica trappola degli psicoterapeuti alle prime esperienze con pazienti che reputano difficili, tendono a pensare come cavarsela prima ancora di avere ascoltato fino in fondo le comunicazioni del paziente ed aver lavorato su queste per renderle sempre più chiare a sé e di conseguenza anche al paziente.

5) Questo punto è la conseguenza del precedente. Quando siamo impegnati in un dialogo, continuiamo ad usare l’esempio iniziale del colloquio con il figlio che chiede qualcosa, la richiesta di chiarimenti è fondamentale.

Innanzitutto, ciò dà l’impressione di essere presi sul serio, generando una atmosfera di rispetto che, se diventa uno stile di comunicazione, educa a fare valutazioni più ponderate. Spesso nella ricerca di chiarimenti si può aiutare un figlio ad osservare aspetti della sua richiesta ai quali non aveva pensato, per esempio l’esistenza di uno sciopero dei trasporti o la fine del servizio dei mezzi pubblici dopo un certo orario.

In altre parole, la richiesta di chiarimenti corrisponde a questa domanda di base: …visto che mi chiedi il permesso di fare questa cosa, come ti sei organizzato per attuarla? Non dimentichiamo mai quanto siano educative le domande, quanti progressi si debbano ad esse.

6) Una domanda sul metodo. Quando siamo in procinto di proibire qualche cosa a nostro figlio siamo consapevoli dei criteri che abbiamo usato per giungere a questa conclusione? Se c’è una tradizione da rispettare va bene così. La tradizione offre soluzioni precostituite. Ma se non c’è di mezzo una tradizione allora è necessario pensare perché con i sì ed i no educhiamo i nostri figli.

 

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Furio Ravera
Laureato in Medicina e Chirurgia all'Università di Milano, ha conseguito la specializzazione in Neuropsichiatria Infantile. Dal 1980 è psichiatra presso la Casa di Cura Le Betulle dove è direttore dei reparti "Abuso e Dipendenze da Sostanze Stupefacenti e Farmaci" e "Disturbi di Personalità e Disturbi Psicotici". Ha completato il 1° Corso MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) e il Corso di 1° e 2° Livello EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) per il trattamento dei traumi. Insieme a Roberto Bertolli ha fondato le Comunità Terapeutiche Crest, la Società di Studio per i Disturbi di Personalità (SdP), la Comunità Terapeutica Cima di Milano e il Centro Terapeutico La Ginestra di Milano. Ha prestato numerose consulenze presso Sert, Casa di Cura Villa del Principe, Casa di Cura Villa dei Pini. Già Professore a contratto presso la Scuola di Psicologia Clinica dell'Università di Milano Bicocca, tra le numerose pubblicazioni annovera "Un fiume di cocaina" e "Le regole e la manutenzione della Vespa".

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