Nella terapia cognitivo-comportamentale (Cognitive-behavioral therapy – CBT) intervenire sulla depressione significa operare su tre specifici aspetti: disperazione e suicidarietà, bassa autostima e scarse energie (Wright, Turkington, Kingdon & Basco, 2009).

Quando si sviluppa un disturbo depressivo grave si adotta una visione così tetra e sconfortante della propria condizione da essere convinti di non poterla risollevare in alcun modo. L’intervento psicoterapeutico è di conseguenza percepito dal paziente depresso come insufficiente o comunque in grado di produrre cambiamenti molto parziali.

Risollevare la speranza è quindi il primo degli obiettivi terapeutici. Per raggiungerlo i terapisti cognitivo-comportamentali cercano innanzitutto di generare una forte alleanza terapeutica che, brevemente, consiste nel co-creare una relazione di fiducia tra paziente e terapeuta che consenta al primo di sentirsi libero di negoziare i propri bisogni (Safran & Muran, 2002) e di affidarsi al terapeuta in quanto ritenuto in grado di fornirgli aiuto.

Si procede parallelamente cercando di trasmettere al paziente ottime ragioni per cui potrebbero verificarsi dei risultati positivi durante la terapia, focalizzandosi su prospettive positive, senza essere miracoliste, che spesso non sono contemplate da chi soffre di depressione che, invece, è assorbito da prospettive catastrofiche.

Quando si ha a che fare con pazienti con depressione maggiore si può avere la sensazione che, considerando quello che hanno passato, non vi sia effettivamente alcuna possibilità di uscire da quello che descrivono come incubo. È fondamentale che il terapeuta non si faccia trascinare dentro questo mondo di disperazione, riuscendo al tempo stesso a cogliere la gravità della situazione e a risuonare con la sofferenza del paziente.

Il trattamento, con questa categoria di pazienti facilmente scoraggiabili, va quindi impostato generando una serie di obiettivi realizzabili. Gli psicoterapeuti CBT, difatti, assegnano compiti comportamentali che, una volta portati a termine, dimostrino al paziente di avere le capacità di cambiare. A partire da queste evidenze, è possibile smantellare poco alla volta i pensieri e le credenze disperanti, ridefinire i pensieri suicidali e rafforzare invece uno stile di pensiero positivo.

Persone bipolari in fase depressiva o individui unicamente depressi sperimentano la sensazione di non avere energie sufficienti per fare qualsiasi cosa, compreso alzarsi dal letto! Solo l’idea di mobilitarsi per svolgere un’attività, anche la più comune e usuale, genera un senso di affaticamento così sconvolgente che questa viene abbandonata ancor prima di poterla iniziare; oppure è svolta con tremenda lentezza e sforzo inaudito.

L’attivazione comportamentale, ovvero i piccoli compiti assegnati dal clinico di cui sopra, è quindi la tecnica indicata per poter affrontare l’anedonia, in quando alimenta il senso di autoefficacia nei pazienti, con un effetto positivo a catena su tutte le altre variabili implicate nel cambiamento.

È importante che questi target siano scelti di comune accordo tra paziente e terapeuta e che contemplino compiti realizzabili e significative per il paziente stesso senza però farlo apparire squalificato. È utile identificare quelle attività che possano essere incrementate col tempo, come fare una passeggiata o rifare il letto, e ridurre quelle che invece esacerbano ulteriormente i sintomi depressivi.

Se il clinico incontra delle difficoltà nel portare a compimento gli esercizi assegnati, il terapeuta è chiamato ad indagare le cause delle difficoltà manifestate. Una volta individuate, si può procedere sviluppando un ragionamento di problem-solving volto ad individuare le possibili strategie da adottare per superare anche questi ostacoli.

Può essere utile per il paziente annotarsi il proprio livello di padronanza e piacere, esprimendolo su una scala da 1 a 10 o da 0 a 5. In questo modo egli è in grado di verificare la propria capacità di sperimentare piacere e gestire efficacemente le attività quotidiane.

Accade anche che, durante svolgimento dei compiti assegnati, emergano dei pensieri automatici maladattivi che concorrono a rendere più faticoso lo svolgimento degli stessi. Sono pensieri assolutistici, generalmente denigratori come “non ce la farò mai a curarmi” o “la mia vita è un disastro e io sono una nullità”. Grazie però allo svolgimento delle attività prescritte è possibile mettere in discussione la validità di queste asserzioni.

Ultimo elemento su cui interviene il terapeuta cognitivo-comportamentale è la bassa autostima, che il paziente depresso manifesta descrivendosi come un fallito senza via di scampo. Nella depressione si ripercorrono tutte quelle vicende, che appaiono infinite, in cui si è dimostrato di essere capaci unicamente a deludere le proprie aspettative e quelle degli altri.

Un depresso è in sostanza chi percepisce se stesso come una persona che non sarà mai amata, che merita di essere lasciata sola, che non ha valore, senza speranza e quindi un totale fallimento.

Un ansioso, diversamente, ha il timore di venir rifiutato per qualcosa che egli percepisce di sé come inadatto, o può sviluppare una certa ansia anticipatoria che consiste nel timore di poter nuovamente rincontrare una situazione spiacevole.

La depressione maggiore, invece, si associa alla certezza incrollabile di essere destinati ad una vita di sofferenza interminabile, per la quale, infatti, non ha più senso sprecarsi ulteriormente.

Queste credenze vanno ristrutturate dimostrando al paziente che nonostante il peso decisivo delle sue esperienze negative e traumatiche, è il modo in cui egli interpreta gli eventi a determinare l’effetto che questi hanno su di sé.

Attraverso il racconto della propria storia, il paziente viene guidato dal terapeuta nell’esplorazione di tematiche cognitive e comportamentali che fanno emergere appunto schemi di pensiero negativi di cui generalmente egli non è completamente consapevole.

È possibile così far scoprire al paziente che per tutto questo tempo egli ha mal interpretato alcuni aspetti di quegli eventi e situazioni che hanno concorso a generare questo stato di profonda disperazione; oltre a mettere in campo dei pattern di comportamenti che lo hanno ripetutamente condotto sulla strada del fallimento.

Tutto questo può essere fatto dal terapista cognitivo-comportamentale ponendo domande socratiche, registrando i cambiamenti di pensiero in modo da conferire prove tangibili del cambiamento, generando liste di vantaggi e svantaggi che possano aiutare i pazienti a prendere decisioni più ragionate e meno condizionate dai pensieri automatici negativi e quindi supportandoli nel generare schemi di pensiero alternativi che gli consentano di interpretare in maniero meno debilitante le difficoltà con cui si interfacciano.

La depressione maggiore è quindi curata dalla CBT attraverso un processo a piccoli passi che si occupa molto dei sintomi e si avvale di strategie che mirano a riattivare la vita che si è fermata. Non si contemplano, almeno all’inizio, interventi volti a rielaborare la natura profonda del disturbo e, altrettanto, non si impegnano i pazienti in faticose e dolorose rielaborazioni del passato.

Nemmeno la mindfulness viene adoperata nei casi in cui la depressione è così pervasiva da aver obbligato il sofferente a ritirarsi completamente o quasi dalla vita sociale e lavorativa, da aver perso interesse per la maggior parte delle attività da cui traeva in precedenza piacere e per la quale è necessario l’utilizzo di psicofarmaci.

In sostanza la depressione maggiore, che si associa a fattori di rischio di ordine biochimico e genetico, non è la stessa cosa delle depressioni lievi e moderate, le quali a loro volta non corrispondono alla tristezza.

La depressione comune viene esperita come una mancanza di senso pervasivo e di fiducia in se stessi, in un periodo, anche piuttosto duraturo, in cui sono necessari dei cambiamenti importanti nel modo di vivere noi stessi e la nostra vita.

La natura della depressione è quindi quella di essere un meccanismo difensivo doloroso che ha lo scopo di suggerirci che c’è qualcosa nella nostra esistenza che non si sta esprimendo come dovrebbe.

La depressione arriva per fermarci (ecco spiegate la mancanza di energie e le sensazioni di sconforto così debilitanti) perché possiamo iniziare ad ascoltare alcune parti di noi stessi che sentono ormai il bisogno impellente di evolversi e, a volte, per invitarci a perdere anziché continuare a combattere battaglie attraverso le quali auspichiamo invano di realizzarci.

Dietro una depressione lieve e moderata possono celarsi problematiche legate all’ambito lavorativo, come ritmi eccessivamente frenetici o relazioni con i colleghi e i capi fortemente compromesse, svilenti o caratterizzate da atteggiamenti prevaricatori; problematiche legati alla soddisfazione nella relazione di coppia, all’incapacità di accedere e vivere alcune emozioni che vengono invece rifiutate, negate o razionalizzate.

Ci si può scoprire eccessivamente legati ad un’immagine di sé che non è più capace di esaudire le evoluzioni che si sono susseguite in noi nel tempo e che ci impedisce di accogliere determinati cambiamenti sia interni che esterni.

Possono contribuire, infine, fattori di tipo sociopolitico e culturale: un clima teso, che genera incertezza nelle nostre istituzioni influenza la percezione del nostro futuro e implica ulteriormente la necessità di far ricorso a risorse personali per fronteggiare possibili condizioni avverse.

A nulla servono i continui sforzi di modificare la nostra sofferenza, che rischiano anzi di riportarci sulla stessa strada che la depressione si sta impegnando di farci abbandonare. Anzi, più ci si sforza e si cercano spiegazioni della propria condizione e più si corre il rischio di cadere in una spirale di sofferenza.

Dobbiamo partire dal presupposto che quando la depressione, per lieve o moderata che sia, ci ha procurato una significativa dose di sofferenza, non siamo in possesso delle migliori strategie cognitive, emotive e comportamentali per rialzarci.

Quando siamo in depressione (non maggiore) è utile imparare a mollare l’osso, a lasciarsi andare alla sofferenza, accettarla senza cadere in disperazioni insolvibili, ma consentendoci di farne esperienza e, infine, non per ordine di importanza, provare a sviluppare una certa dose di compassione per se stessi imparando a distaccarsi da quei pensieri che, non trovando una causa esterna a tutto quel dolore, procedono con autoaccuse persistenti.

Allora in questi casi può tornarci utile diventare capaci di ascoltare delle nostre sensazioni ed emozioni, di contemplazione del nostro stato attuale nel qui ed ora, scevri dai soliti giudizi, dalle aspettative e dalle concezioni di come noi crediamo debbano andare le cose (Williams, Teasdale, Segal & Kabat-Zinn, 2010).

È possibile farlo attraverso la Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness (MBCT) (Siegal, Williams & Teasdale, 2018) che nei casi meno gravi di depressione, si è dimostrata in grado di farci tornare al corpo, la componente più concreta della nostra vita psichica, permettendo così non solo una riduzione dei sintomi ma un’evoluzione del nostro intero essere.

 

Bibliografia

Articolo liberamente tratto da: Wright, J. H. (2009). Cognitive-behavior therapy for severe mental illness: An illustrated guide. American Psychiatric Pub.

Muran, J. C., & Safran, J. D. (2002). A relational approach to psychotherapy. Comprehensive handbook of psychotherapy: Psychodynamic/object relations, 1, 253-281.

Segal, Z. V., Williams, J. M. G., & Teasdale, J. D. (2018). Mindfulness-based cognitive therapy for depression. Guilford Publications.

Williams, M., Teasdale, J., Segal, Z., & Kabat-Zinn, J. (2010). Ritrovare la serenità. Come superare la depressione attraverso la consapevolezza. Raffaello Cortina Editore.

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