“Le cose che vede un bambino piccolo non formano ricordi, formano parti della sua anima” (M. Montessori)

Questa affermazione invita ad una riflessione profonda su una fase della vita nel corso della quale i “fatti” hanno una funzione plastica, ovvero non si limitano ad accadere e ad essere registrati nella memoria ma svolgono un’azione costruttiva sulla mente e più specificamente sulla struttura da cui la mente sorge, il sistema mente/corpo, plasmando le basi per mezzo delle quali le esperienze successive vengono ordinate entro le categorie della conoscenza.

Si osservano nei giovani pazienti forme di disagio che sono la conseguenza del primo calco che dà forma alla mente. Anche il vuoto è parte della forma. Il vuoto è l’esperienza della quale non si riesce a cogliere il senso, rimane la forma anatomica della parte influenzata dall’evento.

La geometria primordiale che permette di riconoscere gli eventi attraverso le modificazioni cui il corpo va incontro mano a mano che le cose accadono, non è un ricordo biografico ma è qualcosa di più, un marchio, una curvatura somatosensoriale, che influenza la percezione e la rappresentazione di esperienze successive.

L’abbandono, l’incuria, l‘incapacità di rappresentarsi i bisogni del bambino da parte del caretaker rappresentano esperienze molto potenti nella direzione di plasmare “parti dell’anima” dei bambini.

Gli abusi e le violenze sono ancora più potenti. Non mi addentro in questa sede su questi eventi traumatici maggiori per porre attenzione su aspetti che riguardano più direttamente le vicissitudini di attaccamento del bambino.

Da un lato c’è un adulto che non capisce, non ha empatia, non si immagina nemmeno lontanamente gli effetti che possono essere generati dal suo atteggiamento. Tale adulto non è capace di traduzione nel ricevere i segnali del bambino e tantomeno sarà capace a favorire una conversione in categorie, qualità e linguaggio, ciò che il bambino sta vivendo come insieme corpo/mente.

Come sente la solitudine un bambino di 2 anni, per esempio?

Se gli si dice “esco per mezz’ora, stai qui buono…” possiede già una nozione del tempo che può fargli considerare questa affermazione come rassicurante? Abbiamo idea di cosa significa il tempo per un bambino? Abbiamo idea di quale grande errore sia pensare che la sua nozione di tempo sia uguale a quella di un adulto?

L’incapacità di porsi questi quesiti è già un atto di incuria per incapacità di riconoscere una differenza mentale fra caretaker e bambino. Ciò non significa che non ci si può allontanare dal bambino nemmeno per un attimo, significa avere il polso dell’impatto che può avere in un determinato momento l’allontanamento del caretaker tenendo conto che un tempo troppo lungo in cui il bambino viene lasciato solo, senza che percepisca nelle vicinanze la presenza di qualcuno, a lui noto come persona affidabile, è gravida di conseguenze.

Va detto che quote di assenza del caretaker hanno una loro positività, fintantoché rientrino nelle caratteristiche del genitore sufficientemente buono, perché stimola l’attività immaginativa del bambino che inizia a “fantasticare” sull’ oggetto gettando le basi per quell’attività di pensiero che diventerà sostegno del sé.

Il bambino può avvalersi di oggetti transazionali per “autoconsolarsi”. Tutto ciò presuppone il costituirsi di strutture anatomiche che non sono ricordi bensì elementi atti a svolgere una funzione.

Tutto ciò può avvenire quando lo stato di “solitudine” non determina una modifica corporea soverchiante per le risorse del bambino. Se si verifica questa “esondazione” di stimoli all’interno del sistema corpo/mente è come se non ci fosse tempo per allestire un sistema di accoglimento, contenimento, comprensione e governo di questi stimoli generando una condizione di caos.

Un buon esempio di conseguenze dovute alla disparità fra stimoli e risorse è rappresentato da quel che succede quando un cieco dalla nascita acquista la vista in seguito ad uno specifico intervento chirurgico. La retina raccoglie gli stimoli luminosi e li trasmette nella corteccia occipitale visiva che, data la cecità dalla nascita, non ha potuto maturare quindi non è in grado di accogliere ed ordinare gli stimoli al fine di ottenere una rappresentazione degli stessi in forma di immagine.

Leggiamo come David Eagleman nel libro Il tuo cervello, la tua storia, descrive ciò che è accaduto ad un paziente quando viene sbendato dopo un intervento di trapianto di cornea per restituirgli, dopo 40 anni, la vista che aveva perso nella prima infanzia:

Ecco come Mike descrive l’esperienza di quando il medico rimosse la garza: «C’è questa esplosione improvvisa di luce e le immagini mi bombardano gli occhi. All’improvviso devi fronteggiare questo fiume di informazioni visive, è qualcosa di travolgente».

Le nuove cornee di Mike ricevevano e mettevano a fuoco la luce proprio come dovevano fare, ma il suo cervello non riusciva a dare un senso all’informazione che riceveva. Mentre le telecamere dei telegiornali lo riprendevano, Mike guardava i suoi bambini e sorrideva loro, ma nel suo intimo era come pietrificato, perché non riusciva a capire come fossero fatti, o a distinguerli l’uno dall’altro. Ora ricorda: «Non avevo la minima percezione delle loro facce». Per lui era come se «il mio cervello dicesse ‘oh mio Dio’».

“Oh mio Dio!“ lo diciamo quando ciò che sperimentiamo è troppo. Ciò che “vedeva” era troppo per Mike perché il suo cervello non era pronto, non aveva avuto modo di prepararsi a ciò che doveva ricevere.

Quel che vale per la vista vale per ogni altra percezione.

Allora ci dobbiamo domandare quanto è stimolante, in senso negativo, il vuoto che un caretaker lascia intorno al bambino. Come lo sente, dove lo sente?

Non dobbiamo fare l’errore di impiegare la nostra esperienza di solitudine, da adulti, per immaginare che nel bambino sia simile. Fame, sete, mal di orecchi, male al pancino, pipì e pupù, caldo, freddo, posizione comoda o scomoda, rumori improvvisi, luci ed ombre, non sono processati da una mente esperta.

Il bambino risponde agli stimoli dove è possibile al livello istintuale ed automatico di più basso livello, che in termini di automatismo ha una sua efficacia, ma limitata. Per esempio, può scaricare la vescica o le feci, ma che fare poi con il disagio che ne può conseguire? Può tentare di cambiare posizione attraverso tentativi motori. Ma cosa può fare per la fame, succhiarsi il dito? Per quanto tempo è efficace? E per la sete? Ed eventuali dolorini?

Quando gli stimoli superano una certa soglia di magnitudine vanno a generare una ineffabile sensazione di insicurezza che travolge il sistema corpo/mente costituendo le basi somatosensoriali della paura. E ciò diverrà una forma, una configurazione di stimoli non riducibile.

Noi terapeuti possiamo incontrare le conseguenze di questi calchi, che necessitano di essere tradotti in linguaggio perché mai lo furono.

Francesca è anoressica. Dopo alcuni colloqui emerge una spiegazione.

“…devo mangiare pochissimo perché, devo sempre sentire la fame, altrimenti sento altre cose che non voglio sentire… la tristezza…”

Anche la ricerca della magrezza ha una spiegazione per Francesca, “così sanno che non sto bene e continuano a mantenere la loro attenzione su di me”; e poi la contraddizione “non li voglio addosso, sempre a controllarmi a pretendere che mi pesi…

Tutto il giorno la mia mente è sul cibo

Francesca capisce che il cibo per lei non è più cibo ma un oggetto carico di qualità simboliche sul quale esercita un controllo minuzioso. Piccole quantità. Qualcosa da mangiare sempre con lei… una caramella, un piccolo frutto… nulla può essere buttato.

Sembra maneggiare il conflitto fra bisogno e desiderio di autonomia in spazi millimetrici.

“Non capisco mia madre, cosa pensa e come pensa… è sempre fuori luogo sempre fuori sintonia.”

Anche qui ci troviamo di fronte ad una forma sottile di abbandono, una madre che non comprende i bisogni della figlia, che non è mai stata capace di capirli né di spiegarglieli, ostacolando quel processo che permette di riconoscere i bisogni e di impiegare le proprie risorse per soddisfarli.

Francesca non sa cosa fare della relazione con sua madre, Francesca non sa cosa fare del cibo. Francesca non conosce i propri bisogni.

Negli equivoci della relazione madre bambino che Francesca ha vissuto, la costruzione della mente non ha potuto avvenire con ordine, per la contraddittorietà e l’ambiguità della relazione con la madre.

Il difetto empatico della madre, che in altra sede ha ammesso di non aver mai capito la figlia, non è stato caratterizzato da mancanza di empatia bensì da una sorta di disempatia, sentire ma non comprendere, sentire in modo sbagliato, errori di attribuzione di significato.

La mente di Francesca è stata plasmata così, vuoti ed equivoci. Francesca ha fatto del cibo una sorta di piccolo pallottoliere (le palline sono le piccole quantità di cibo) con il quale calcola l’amministrazione dei suoi bisogni, all’infinito senza mai raggiungere un risultato che sia soddisfacente.

 

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Furio Ravera
Laureato in Medicina e Chirurgia all'Università di Milano, ha conseguito la specializzazione in Neuropsichiatria Infantile. Dal 1980 è psichiatra presso la Casa di Cura Le Betulle dove è direttore dei reparti "Abuso e Dipendenze da Sostanze Stupefacenti e Farmaci" e "Disturbi di Personalità e Disturbi Psicotici". Ha completato il 1° Corso MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) e il Corso di 1° e 2° Livello EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) per il trattamento dei traumi. Insieme a Roberto Bertolli ha fondato le Comunità Terapeutiche Crest, la Società di Studio per i Disturbi di Personalità (SdP), la Comunità Terapeutica Cima di Milano e il Centro Terapeutico La Ginestra di Milano. Ha prestato numerose consulenze presso Sert, Casa di Cura Villa del Principe, Casa di Cura Villa dei Pini. Già Professore a contratto presso la Scuola di Psicologia Clinica dell'Università di Milano Bicocca, tra le numerose pubblicazioni annovera "Un fiume di cocaina" e "Le regole e la manutenzione della Vespa".

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