Ci ha lasciato pochi giorni fa uno dei più importanti esponenti del cognitivismo italiano. Giovanni Liotti, psichiatra e psicoterapeuta, è principalmente ricordato per i contributi apportati allo sviluppo dell’approccio cognitivo-costruttivista e cognitivo-evoluzionista.

Vogliamo omaggiarlo presentando i suoi importanti contributi sul dibattito inerente il nucleo di malfunzionamento del Disturbo Borderline di Personalità (DBP).

Esistono oggi diversi approcci e prospettive di orientamento psicodinamico e cognitivo-comportamentale di comprovata efficacia per la cura del DBP; ciascuno di questi fornisce una specifica spiegazione di quale sia la dinamica patologica che ha eretto il disturbo: il conflitto tra pulsioni libidiche ed aggressive secondo Otto Kernberg, il deficit di capacità di mentalizzazione nella prospettiva di Peter Fonagy, alcune convinzioni patogene inerenti il sé e il mondo nell’approccio di Aaron Beck e un deficit di regolazione delle emozioni secondo Marsha Linehan.

Per una comprensione più dettagliata dei diversi approcci, suggerisco la lettura del seguente articolo.

Secondo Liotti, nella pratica clinica è spesso necessario e vantaggioso operare in un’ottica integrata, ovvero il terapeuta deve agire tenendo a mente che “il nucleo centrale del suo disturbo è tanto una rappresentazione contraddittoria e non integrata di sé e degli altri, quanto una particolare reattività all’abbandono e insieme una difficoltà a modulare e regolare l’esperienza emotiva” (Liotti, 1999).

Quindi Liotti ha proposto un modello teorico unitario che tiene conto di tutte queste dimensioni e che ruota attorno al concetto di attaccamento disorganizzato (DA) (Main, 1995).

Brevemente, sin dalla nascita ogni essere umano è mosso dal bisogno di creare legami con figure accudenti che gli consentiranno di sopravvivere e di svilupparsi. I comportamenti di attaccamento sono un insieme di condotte e atteggiamenti innati che si attivano per cercare la prossimità e sperimentare calore fisico e protezione.

Nel tempo, col procedere dell’interazione tra figura accudente e bambino, quest’ultimo organizza i propri comportamenti di attaccamento in sistemi (modalità interazionali) che riflettono il tipo di relazione con una persona specifica.

Secondo John Bowbly, l’ideatore di questa teoria, ciò implica che il bambino sia in grado di generare schemi di sé, dell’altro e della relazione tra sé e l’altro. Inoltre, Mary Ainsworth osserva che tra bambino e figura accudente si genera una particolare tipologia di legame di attaccamento stabile nel tempo che può essere sicuro, insicuro ansioso e insicuro evitante.

Per approfondire la tematica rinvio ai seguenti link: 1, 2.

Accade però che in alcune relazioni genitore-figlio, la situazione sia così compromessa da non consentire l’organizzazione di uno specifico stile di attaccamento.

In questi casi si parla di attaccamento disorganizzato: vivere con un genitore, in particolar modo la madre, depresso, abusante di alcol o a sua volta portatore di un attaccamento di tipo disorganizzato, oppure ancora in un contesto familiare caotico e maltrattante, può indurre nel bambino dei vissuti emotivi fortemente contraddittori che gli impediscono di organizzare uno stile di attaccamento coerente (Liotti, 2002).

Come ricorda Liotti, l’interazione con la madre diventa traumatica in due modi: attraverso comportamenti di maltrattamento e abuso fisico, emotivo e/o sessuale, oppure perché la stessa manifesta, spesso involontariamente, espressioni facciali di paura che spaventano il bambino (Liotti, 2002).

Quest’ultimo comportamento si verifica quando, durante l’accudimento del proprio figlio, nel genitore si riattivano memorie traumatiche connesse alle sue stesse esperienze traumatiche di accudimento di quando era bambino.

Ciò avviene perché l’esperienza di abuso, di maltrattamento o di perdita della figura di attaccamento produce delle memorie fortemente destabilizzanti che se non vengono rielaborate e risolte, riemergono imprevedibilmente nella coscienza sotto forma di frammenti (Liotti, 2002).

Tali frammenti non possono essere integrati in qualsivoglia processo di pensiero (Horowitz, 1986; Main & Morgan, 1996) e di conseguenza possono manifestarsi inconsciamente e involontariamente espressioni di paura; espressioni che sconvolgono il bambino impedendogli di sviluppare una memoria implicita coerente di sé e dell’altro (Modelli Operativi Interni [MOI] composti da immagini, emozioni, comportamenti).

La frammentazione dei MOI implica che il bambino si sente al tempo stesso rassicurato e spaventato dalla figura di attaccamento e che le sue rappresentazioni cognitive oscilleranno tra tre versioni stereotipiche di sé e dell’altro: la vittima, il persecutore e il salvatore (Liotti, 2002).

Il bambino può vedere la persona accudente come un persecutore, e quindi se stesso come vittima o come persecutore a sua volta (accade, infatti, che il bambino percepisca se stesso come la fonte di paura del genitore), oppure come un salvatore (difatti, nei momenti di contatto fisico, l’adulto si comporta cercando di dare conforto al bambino).

È però pure possibile che l’infante concepisca entrambi come minacciati da una misteriosa fonte di pericolo oppure, infine, il bambino può credere di essere il salvatore del proprio fragile genitore (il calore generato dal contatto con il figlio può infatti essere fonte di rassicurazione per il genitore) (Liotti, 2002).

Detto questo, Liotti ritiene che vi siano due meccanismi attraverso i quali, dalla relazione caregiver-bambino, si sviluppa l’attaccamento disorganizzato: l’attivazione simultanea del sistema di difesa e di sicurezza, ovvero due sistemi contrastanti di controllo del comportamento.

I sistemi di difesa sono rappresentati da quelle strategie comportamentali come scappare, congelarsi, aggredire per difesa e la sottomissione, che sono presenti in tutti i vertebrati. Diversamente, uno dei sistemi di sicurezza corrisponde proprio a quella ricerca di prossimità che è regolata dal sistema di attaccamento.

A queste strategie vanno ad assommarsi quelle di natura simbolica, giunte più tardi nel corso dell’evoluzione grazie allo sviluppo dalla neocorteccia, basate sui pensieri. Ovvero, se una persona si interfaccia ad una situazione simile ad un evento pericoloso già sperimentato in passato, è in grado di evocare non solo risposte emotive ma anche pensieri che possono supportarla nell’organizzare strategie più efficaci per fronteggiare le difficoltà, sebbene a volte questi possono fallire in questo compito (Liotti, 2002).

Secondo Liotti quindi, la coesistenza di strategie di coping innate differentemente evolute e contrastanti (simboliche, intrapsichiche e interpersonali [attaccamento] da un lato, e quelle più antiche come scappare e congelarsi dall’altro), favorirebbe, in certe circostanze, lo sviluppo di uno stile di attaccamento irrisolto.

Tornando quindi al caso della madre che soffre di reminiscenze traumatiche e che esprime paura nel volto durante la fase di accudimento; questa attiverà sia i sistemi di difesa che quello di sicurezza, corrispondente al sistema di attaccamento, del bambino.

I sistemi di difesa si rivolgono quindi alla figura accudente a cui il bambino indirizza attacchi oppure cerca di nascondersi da esso. Ogni tentativo di fuga dal genitore determina però l’attivarsi del sistema innato di attaccamento per paura della solitudine riconducendo il bambino al punto di partenza (Liotti, 2002).

All’interno di questa dinamica insolubile, egli esibisce quindi comportamenti disorganizzati che vanno dalla ricerca di vicinanza col genitore, all’immobilismo, alla fuga e allo scoppio di aggressività apparentemente immotivata durante un momento di intimità (Main & Solomon, 1990; Liotti, 2002).

Col tempo l’individuo che sviluppa una struttura di personalità borderline vede sottostare le proprie emozioni, i propri pensieri e comportamenti allo schema originale, il quale, in situazioni di pericolo o dolore, gli suggerisce contemporaneamente che gli altri sono la sua salvezza e una fonte di pericolo.

Improvvisamente queste persone, anche in contesti di serenità, sperimenteranno rabbia, vivranno timori paranoici e avranno molta paura di essere abbandonati (Liotti, 2002).

Anche nella relazione terapeutica si manifesteranno slittamenti della percezione di sé e del terapeuta.

Secondo Liotti è quindi fondamentale che il terapeuta sia in grado di pensare gli scambi interazionali e la motivazione interpersonale in termini evoluzionistici, e cioè deve prestare attenzione all’attivazione del sistema di attaccamento, riuscendo a distinguerlo dalle interazioni mediate da altri sistemi motivazionali evoluti all’interno dei dialoghi terapeutici, in modo tale che egli possa avvertire l’esordio di un cambiamento nel modo di percepire se stesso e il terapeuta.

Il terapeuta può indagare queste attivazioni analizzando le emozioni del paziente e di se stesso, oppure attraverso le rappresentazioni del paziente che emergono nella seduta. Se il terapeuta risponde adeguatamente a questi segnali di attivazione del sistema di attaccamento, allora il sistema difensivo resta latente e l’esperienza terapeutica del paziente viene guidata dal sistema di sicurezza.

Risulta però difficile, secondo Liotti, raggiungere sempre questo obiettivo dato il forte legame tra i due sistemi supportato dai MOI.

Di conseguenza nel corso del lavoro terapeutico, e persino all’interno di una stessa seduta, si possono verificare diverse oscillazioni che inducono il paziente borderline a “chiedere aiuto, guardare con distacco e indifferenza, dichiarare il desiderio di abbandonare la terapia per paura di venire danneggiato, esprimere la paura di poter far del male ad una persona amata, e far sentire il terapeuta importante e amato ma anche minacciato e oppresso” (Liotti, 2002, pag 360).

È quindi fondamentale secondo Liotti, impostare la terapia su un contratto ben definito e introducendo la presenza di un secondo terapeuta, che comporta il vantaggio di non caricare eccessivamente su di una singola figura il peso dell’attivazione del sistema di attaccamento e consente altresì di gestire meglio gli abbandoni.

 

Bibliografia

Bowlby, J. (1979). The making and breaking of affectional bonds. London: Tavistock Publications.

Horowitz, M. J. (1986). Stress response syndromes (2nd ed.). New York: Aronson.

Liotti, G. (1999). Il nucleo del disturbo borderline di personalità: un’ipotesi integrativa. Psicoterapia, 5(16/17), 53-65.

Liotti, G. (2002). The inner schema of borderline states and its correction during psychotherapy: A cognitive-evolutionary approach. Journal of Cognitive Psychotherapy, 16(3), 349.

Farina, B., & Liotti, G. (2005). Two therapists for one patient: The attachment theory as a framework for co-therapies in borderline patients treatments. Clinical Neuropsychiatry: Journal of Treatment Evaluation, 2(5), 260-269.

Liotti, G., Cortina, M., & Farina, B. (2008). Attachment theory and multiple integrated treatments of borderline patients. Journal of the American Academy of psychoanalysis and Dynamic Psychiatry, 36(2), 295-315.

Main, M. (1995). Recent studies in attachment: Overview, with selected implications for clinical work. In S. Goldberg, R. Muir, & J. Kerr (Eds.), Attachment theory: Social, developmental and clinical perspectives (pp. 407–474). Hillsdale, NJ: Analytic Press.

Main, M., & Morgan, H. (1996). Disorganization and disorientation in infant strange situation behavior: Phenotypic resemblance to dissociative states? In L. Michelson & W. Ray (Eds.), Handbook of dissociation (pp. 107-137). New York: Plenum Press.

Main, M., & Solomon, J. (1990). Procedures for identifying infants as disorganized/disoriented during the Ainsworth Strange Situation. Attachment in the preschool years: Theory, research, and intervention, 1, 121-160.

http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/liotti-1.htm

 

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