Il paziente R. racconta che non è mai stato in grado di regolarsi. Sul lavoro e nella vita accettava di caricare sulle sue spalle un impegno dopo l’altro fino ad arrivare ad un livello di saturazione che risolveva con l’uso di cocaina, una sorta di “vacanza del cervello”.

Trova questa espressione azzeccata perché era come liberarsi di colpo da un grosso peso. Mentre descriveva la sua situazione indicava, allargando le braccia, il suo corpo.

Mi spiega che quando deve affrontare un discorso o una discussione importante poi avverte una grande spossatezza fisica, mentre non avverte alcuna fatica mentale. Tutto sembra registrato nel corpo.

Raccogliere questo tipo di memoria è una manovra molto delicata perché è facile fraintendere.

Il paziente che ha “evitato” di mentalizzare un’esperienza, poiché farla diventare un contenuto della mente veniva inteso come troppo pericoloso, mantiene una memoria degli atteggiamenti e degli adattamenti corporei, che si sono verificati in occasione di un evento doloroso potenzialmente traumatico.

Il passaggio fra la percezione delle sensazioni corporee e la loro mappatura con definizioni linguistiche è il risultato di una relazione di accudimento caratterizzata da una madre capace di pensare il bambino e di raccontare al bambino ciò che sta sperimentando, prima con i gesti e poi con le parole.

Se una madre empatizza con un bambino che ha paura accoglierà fra le sue braccia il bambino con un gesto protettivo che rappresenta uno scudo contro ciò che egli teme. Il bambino si nasconde nel rifugio delle braccia della madre che intanto lo rassicura parlandogli della sua paura e della protezione che ella offre.

Si verifica un complesso gioco corporeo-sensoriale-linguistico, nel corso del quale vengono registrate le modificazioni del corpo, dalla paura al sollievo, e le parole che descrivono l’esperienza in atto, formandosi un brano di linguaggio che fa da parola chiave per l’evocazione di questa esperienza e la comprensione degli eventi somatici che la caratterizzano.

Se è mancata questa esperienza di accudimento resta solo il calco somatico che rimane isolato rispetto alle catene associative che il linguaggio può offrire permettendo l’integrazione con altre esperienze supportive.

In questo modo il corpo diventa una sorta di esperienza ostacolante della ricerca del benessere.

Consideriamo la riflessione che segue:

Ce ne possiamo accorgere dallo stile della conversazione che assume forma di resoconto sommario senza possibile simbolizzazione. Il paziente è intrappolato nello stimolo e ad esso pervicacemente ancorato per fuggire dal vuoto nel quale teme di precipitare in assenza dello stesso.

È per questo che sottovalutare quelle lamentele in terapia non serve, anzi rischia di far sentire il paziente ancora più solo nell’impasse, nel quale egli stesso si è infilato. Sarebbe molto meglio entrare dentro quei comportamenti somatizzanti, provare a connetterli con le sensazioni che prova, cercando di costruire una metafora fondata proprio sulla personalissima associazione dolore/sensazione, per trasformare quel resoconto sommario nella sua individuale narrazione.[1]

 Qui si sottolinea il vincolo che l’attrazione del disagio corporeo (l’insieme delle percezioni negative e sintomi somatici) esercita sull’attenzione bloccando la ricerca di altre forme di rappresentazione.

A questa “corporeità” dell’esperienza si aggancia l’abuso di droga.

Fornendo un sollievo ai richiami che il corpo produce per attrarre l’attenzione su di sé, la droga genera quel “senso di leggerezza” che viene interpretato come piacere.

Intanto ciò che il corpo intendeva comunicare viene insabbiato.

Il ripetersi del gioco esperienza somatica/sollievo rinforza l’uso della droga che diventa perciò una via preferenziale per risolvere il disagio. Questa “preferenza” si farà sentire in quel complesso sistema di sensazioni somatiche che prende il nome di “craving”.

Il craving diventa il “disagio” che copre il vero disagio. Il momento da esplorare è quello che precede il craving perché è la condizione cognitivo-emotiva che il paziente non sa regolare.

Il corpo è il principale sistema di “comunicazione” di questo stato. Il corpo viene percepito inquieto, animato da intenzioni motorie che non trovano una direzione, spesso accompagnato da un sottile tremore, può essere presente un senso di oppressione al precordio o una stretta allo stomaco.

La cognizione, nella sua globalità, si caratterizza per una percezione di un senso di vuoto, di incompletezza, di insoddisfazione, di noia. Gli oggetti non presentano nulla di attraente in questa percezione negativa.

Tutto è vuoto di significato. Un mondo “vuoto” non riesce a colmare le lacune che il paziente sente dentro di sé. È un vuoto di significati, di rappresentazioni supportive, di risorse.

Questa percezione di sé che è di fatto una cognizione negativa che può essere espressa dalla frase:

io non sono capace, non ce la faccio, non ho le facoltà” Si tratta di una sensazione di impotenza che non lascia aperto nessuno spiraglio per la ricerca di una soluzione che preveda l’impiego di risorse personali.

Io non sono all’altezza… di ciò che sento e di ciò che penso…

Si instaura la credenza che solo un mezzo esterno può risolvere questo stato e fra gli espedienti possibili la droga rappresenta lo strumento ideale, il precipitato di tutte le manovre necessarie a modificare questo stato.

Dall’esterno, per mezzo delle cure materne abbiamo fatto le prime esperienze di cambiamento di stato e, nella ricerca della droga sembrano riattivate antiche memorie di una passiva aspettativa di soluzione esterna.

In questo punto si situa il bivio fra cura e abuso di droga.

Nel tentativo di individuare una soluzione esterna, la droga per molto tempo vince perché il tossicodipendente apprende che essa è più rapida anche se nel tempo i suoi effetti non sono più quelli delle prime volte e la ricerca della sostanza si accompagna al tentato rinnovamento di un’illusione ormai tramontata.

La ricerca diventa più allettante dell’effetto della droga stessa, secondo molte testimonianze di tossicodipendenti. Un paziente raccontava che il momento più eccitante del suo consumo di droga era quando il pusher stava arrivando e sentiva il rumore dell’ascensore che saliva dopo il suono del citofono.

Ancora una volta, in queste circostanze è il corpo che parla al paziente. E occorre ascoltare il corpo.

Una possibilità ancora una volta è data dall’ingaggiare il paziente a trasformare in metafore i segnali del corpo. L’impiego in sinergia dell’EMDR e della Mindfulness consente di raggiungere questo obiettivo.

In ambiente idoneo, sicuro, di basso stimolo, la pratica della Mindfulness consente ai pazienti di fare esperienza di “quello che c’è”, che significa in primo luogo scoprire i movimenti dell’attenzione, l’attrazione che certi pensieri intrusivi possono esercitare e imparare progressivamente a lasciare andare i pensieri ottenendo un crescente padroneggiamento dell’attenzione stessa e della consapevolezza dei suoi moti.

L’impiego dell’EMDR consente, in un assetto così preparato, di liberare memorie “bloccate”, e “trasferirle” in un’area del cervello che rende disponibili molteplici informazioni che consentono di processare il ricordo attenuandone l’attivazione emotiva.

Attraverso queste pratiche è possibile favorire nel paziente lo sviluppo di una partecipazione più efficace ed in qualche modo più competente, grazie ad una maggiore consapevolezza, per affrontare un percorso terapeutico.

 

Bibliografia

[1] QUADERNI DI CULTURA JUNGHIANA Numero extra – 2016

Russell Meares: la ‘dolorosa incoerenza’ del Sé nel Disturbo Borderline di Personalità

 

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