Dopo aver parlato per il primo quarto d’ora a proposito di alcune sue tristi vicende personali, la signora P. fa un lungo sospiro a cui seguono pochi secondi di silenzio. Siamo seduti l’uno di fronte all’altra, il suo corpo è rigido, la schiena in avanti, e il suo volto è contratto in un’espressione seria e accigliata. La sua voce affaticata, il respiro affannoso. Sento che è il momento buono per dare una svolta alla seduta e pongo tra di noi il log-drum, uno dei suoi strumenti preferiti. Prendo due battenti, uno lo offro alla signora P. e l’altro lo tengo io.

Fin da quando era entrata in stanza avevo capito che quel giorno P. era tesa. Dopo esserci seduti uno di fronte all’altra P. ha parlato ininterrottamente in maniera concitata, assai poco intellegibile, cercando spesso il mio sguardo. Faceva domande retoriche di cui non aveva bisogno di altra risposta che dell’espressione attenta sul mio volto.

Io la guardavo e con le espressioni del volto cercavo di seguire il filo del suo discorso. Non ero attento al significato delle parole ma alla loro qualità emotiva. La voce di P. era a tratti piena e nervosa e a tratti sottile e soffocata. Nella stessa frase poteva passare da un tono cupo e grave ad una risata isterica che culminava in un sorriso inquieto.

Tra il decadimento cognitivo e lo stato di tensione, era proprio difficile capire cosa stesse dicendo. Parlava solo in dialetto e il fiato corto sembrava a volte strozzarle le parole in gola. Da quello che riuscivo a comprendere credevo che stesse parlando del suo passato difficile, la dura vita nei campi, i maltrattamenti e delle difficoltà di adesso che si trova in RSA[1], la solitudine, le poche visite ricevute e la perdita delle autonomie.

Di me sembrava importarle relativamente poco, l’importante era che fossi li a contenerla e a darle le mie attenzioni dimostrandole di aver capito almeno con il volto. In effetti io non rispondevo verbalmente, non era quello il mio forte. Lasciavo semplicemente che si sfogasse. Ciononostante, dopo i primi 15 minuti P. non si è ancora rilassata. Era il momento giusto.

Dopo aver preso il battente dalla mia mano, P. ripete le ultime parole pronunciate ed inizia a suonare il log-drum. È uno strumento a percussione e consiste in una cassa di legno con una superficie intagliata in modo tale da avere delle piastre intonate. Subito mi unisco anch’io a suonare lo strumento e cerco di modulare la mia produzione affinché risulti simile alla sua.

Dopo pochi secondi, nascono spontanee delle variazioni, prima con cambiamenti nel ritmo da parte sua, poi con l’aggiunta del canto da parte mia. Non c’è bisogno di dire nulla, entrambi abbiamo lo sguardo rivolto verso il timpano, attenti a quello che sta accadendo e aggiustiamo ogni nostra singola nota in funzione di quella dell’altro. Stiamo improvvisando e non sappiamo cosa verrò fuori ma a entrambi riusciamo ad adeguarci o meglio a stare con l’altro dentro questo flusso.

E ci stiamo bene. Lentamente il corpo di P. si rilassa, da proteso in avanti che era piano piano si appoggia allo schienale della carrozzina. Il respiro diventa più profondo e regolare. Il volto si distende e lo sguardo cupo lascia spazio ed un’espressione neutra. Di tanto in tanto gli occhi di P. salgono a cercare i miei, e l’incontro è accompagnato da un sorriso.

La musica che produciamo è semplice, coerente, costante e, direi, gradevole, sembra quasi una marcia trionfale. Dopo poco, le variazioni aumentano, cambia il tempo (rallenta e accelera), l’intensità (cresce e diminuisce), la qualità del timbro, la mia linea vocale, fino a che ci ritroviamo a passare bruscamente da un’atmosfera musicale ad un’altra, per poi tornare a quella di prima e ricambiare tutto nuovamente: siamo sincronizzati.

Ad un certo punto, dopo una serie di inaspettate variazioni, l’intensità dei nostri colpi cresce e il suono del timpano che stiamo suonando diventa sempre più vigoroso. Con esso, aumenta anche la velocità della pulsazione, fino a che, all’improvviso e inaspettatamente, io e P. battiamo insieme un ultimo colpo secco e deciso che segna la fine della prima improvvisazione musicale della seduta. Dal pieno suono al silenzio, in un sol colpo.

Senza bisogno di dire nulla, alziamo la testa dal timpano per guardarci negli occhi, entrambi con un grande sorriso stampato in volto. È uno sguardo profondo e molto eloquente che dura un secondo, dopodiché P. emette una risata fragorosa e rivolge nuovamente lo sguardo al log-drum, sui cui batte con fermezza un ultimo colpo, come a dire: “hehehe, ben fatto!”

Sono emozionato, sento che è successo qualcosa e quest’emozione mi sorprende e crea in me un momento di consapevolezza. Esco per un attimo dal flusso in cui eravamo e do un significato a quanto accaduto: ci siamo capiti. È come se entrambi avessimo potuto dire “ecco come sei”, “ecco come vivi le emozioni”, “ecco cosa stai provando”. D’ora in poi la seduta non è più la stessa. P. è diversa, ora appoggiata comodamente allo schienale della sedia con il volto rilassato. Anch’io non sono più quello di prima.

Ed è stato così perché quell’esperienza di improvvisazione l’abbiamo creata insieme, ognuno contribuendo con il proprio modo di stare con l’altro. Eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Ora, poco ma sicuro, io e P. siamo molto più vicini ed intimi di quanto fossimo ad inizio seduta. Senza bisogni di dirci nulla. Ma come mai? Cos’è accaduto?

Dal punto di vista psicologico possiamo dire che durante l’improvvisazione si sono verificati dei momenti in cui io e P. stavamo intuitivamente partecipando ciascuno all’esperienza soggettiva dell’altro. Ovvero, ciò che provava lei era molto simile a quello che provavo io e viceversa.

Questi momenti sono chiamati “sintonizzazioni affettive” e sono prodotti dalla compartecipazione dell’attenzione, delle intenzioni e degli affetti. Durante l’improvvisazione, io e P. eravamo entrambi concentrati su quello che stava accadendo e condividevamo l’intenzione di essere con l’altro e quindi di accelerare, decelerare, crescere o diminuire l’intensità, fermarci improvvisamente e quant’altro.

La condivisione degli affetti si riferisce al concetto di affetti vitali, ovvero forme del sentire temporale che riflettono non tanto un contenuto emotivo specifico (un’emozione) quando il modo in cui esso viene esperito, il suo profilo temporale (per un approfondimento rimando al mio precedente articolo).

Questo ha permesso di incontrarci e compartecipare a una stessa esperienza soggettiva che ha gettato le basi perché ci fosse un cambiamento. Secondo la psicologia intersoggettiva infatti, la costruzione del Sé ha una base relazionale e quando comprendiamo l’altro in momenti di incontro definiamo noi stessi e consolidiamo o rinnoviamo la nostra identità (Stern, 2005).

Ma come si giunge a questo contatto intersoggettivo? Durante l’improvvisazione musicoterapica, così come durante una seduta di psicoterapia, si verificano una serie di mosse relazionali in cui la disponibilità alla reciproca conoscenza viene costantemente saggiata attraverso uno scambio di segnali che esprimono apertura, accettazione, ritiro, pressione, rifiuto, compartecipazione, ecc.

Questi segnali, di cui i partecipanti sono per lo più inconsapevoli, vengono veicolati attraverso il canale non verbale, i movimenti corporei e la qualità degli affetti vitali. Improvvisando musicalmente, le menti del terapeuta e del paziente interagiscono, condividono e co-creano contenuti mentali simili tramite uno schema del tipo tentativo-errore-riparazione che è necessariamente approssimativo.

Si tratta di negoziare la disponibilità reciproca a farsi conoscere durante l’esecuzione musicale, a far vedere all’altro qual è il nostro modo di vivere le emozioni, quanto siamo liberi e spontanei di vivere un crescendo “esplosivo” oppure di ed essere creativi mentre suoniamo un tamburo in maniera non convenzionale o al contrario siamo chiusi e timorosi di perdere il controllo sulle nostre emozioni.

Tramite questa regolazione reciproca continua del campo intersoggettivo paziente e terapeuta negoziano le modalità e i tempi con cui lavorare insieme per giungere ad un certo obiettivo.

Inoltre, sono fermamente convinto che negli atti creativi si esprimano le parti più sane di noi stessi. Mostrare queste parti sane permette di entrare in contatto con le parti sane dell’altro e amplificarle. Questo significa lavorare sulle risorse e sulle potenzialità piuttosto che sottolineare le dimensioni di perdita e disabilità.

Ma come verificare se la musicoterapia è davvero in grado permettere questi forti momenti di sintonizzazione? Una soluzione è quella di applicare il metodo osservativo nello studio del processo in musicoterapia per valutare cosa accade tra musicoterapeuta e paziente all’interno di una seduta.

A questo scopo, un gruppo di ricerca a cui ho partecipato ha realizzato, basandosi su precedenti studi osservativi, una scala per la valutazione delle sintonizzazioni affettive. Lo studio è stato recentemente pubblicato sulla rivista Clinical Psychology and Psychotherapy.

La cosa a mio avviso più importante è che per i primi 15 minuti di seduta la signora P., per via del decadimento cognitivo e del suo stato di tensione, non riusciva a comunicare chiaramente perché la sua produzione verbale era molto compromessa. L’improvvisazione sonoro-musicale, una delle possibili tecniche di musicoterapia, ci ha offerto invece un canale di comunicazione ancora disponibile a entrambi e assai efficace.

L’immediatezza di questo tipo di comunicazione, che non richiede alcuna verbalizzazione, è il punto forte della musicoterapia. Essa diventa una risorsa preziosa quando l’uso della parola si deteriora o è danneggiato. Gli scambi intersoggettivi infatti avvengono in larga parte nel campo implicito e non richiedono di essere verbalizzati per sortire il loro effetto terapeutico (Stern, 2005).

Ma questo gli uomini l’hanno sempre saputo. Come scrisse il famoso poeta tedesco Christian Johann Heinrich Heine (Düsseldorf, 13 dicembre 1797 – Parigi, 17 febbraio 1856): “Dove le parole finiscono, inizia la musica”.

 

Per approfondire:

Raglio, A., Attardo, L. (in press). Music Therapy in Dementia. In V.R. Preedy (Ed.), The Neuroscience of Dementia. London: Academic Press.

 

Raglio, A., Gnesi, M., Monti M., Oasi, O., Gianotti, M., Attardo L., et al. The Music Therapy-Session Assessment Scale (MT-SAS): validation of a new tool for music therapy process evaluation. Clinical Psychology and Psychotherapy. 2017; 1-15. https//doi.org/10.1002/cpp.2115

 

Stern, D. 2005: Il momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana, Raffaello Cortina Editore, Milano.

 

[1] Le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) sono strutture sanitarie pubbliche o private che ospitano persone non più autosufficienti.

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Lapo Attardo
Nasco a Milano nel novembre del 1985 e dopo una laurea in informatica a indirizzo musicale vengo attratto da quelle che saranno due mie grandissime passioni: la psicologia e la musicoterapia. Mi diplomo in canto presso i Civici Corsi di Jazz e mi formo in musicoterapia presso il Centro di Musicoterapia di Milano e il Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense dell'Università di Pavia. Nel mentre faccio diversi lavori: il cameriere, il maestro di musica con i bambini, l'educatore con utenti disabili; tutte grandi esperienze. Ora sto concludendo la formazione in Psicologia Clinica e Neuropsicologia, lavoro come musicoterapista presso strutture sanitarie lombarde e collaboro a progetti di ricerca scientifica sugli effetti della musica e della musicoterapia. La musica è ancora un divertimento e mi esibisco in eccentriche formazioni di musica vocale. Contatti: attardolapo@gmail.com

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