Fobia sociale, depressione, agorafobia, dipendenza da internet, timidezza, sindrome”.

Queste sono alcune delle parole che vengono usate in modo errato per spiegarsi l’isolamento degli hikikomori, ma sui giornali e telegiornali capita che si usino termini molto meno tecnici e meno gentili che di certo non stanno nel DSM, il manuale usato da molti professionisti per le diagnosi.

Il termine “hikikomori” è un prestito linguistico dal giapponese e significa “ritirarsi, stare in disparte”. 

Questa parola viene adottata sempre più spesso e in più Paesi, Italia inclusa, per indicare le persone che decidono volontariamente di isolarsi dalla società, talvolta fino a vivere nella propria stanza per anni senza mai uscire di casa per alcun motivo.

Il fenomeno in espansione (si parla di 120.000 in Italia) degli hikikomori va interpretato come un problema di natura sociale e culturale: la tendenza all’isolamento, o abbandono della società, la scuola e il lavoro avviene a causa di più fattori come il rapporto con il sistema sociale e la sua pressione.

Si ipotizza che la causa di questo sia la tensione tra le aspettative verso i giovani e le loro reali possibilità di soddisfarle.

Mete sociali come il lavoro, un buon reddito, i risultati scolastici, successo nelle relazioni romantiche o amicali sono sempre più difficili da raggiungere oppure non coincidono coi desideri personali.

La pressione che deriva da questa tensione tra dovere e potere (o volere) schiaccia molte persone, le quali avvertono stress o emozioni come affaticamento costante, sfiducia nei confronti della società, frustrazione, insoddisfazione, demotivazione, ansia e angoscia.

La sofferenza emotiva porta alla decisione di allontanarsi da ciò che la provoca, evitare il confronto con le sfide che vengono poste dalla società e dalla cultura. 

La propria stanza diventa un rifugio, dove rimanere per lasciare la sofferenza fuori dalla porta, protetti.

Abbandonando le attività nel mondo esterno però si finisce per tagliare, volontariamente o no, anche i ponti con le altre persone, quelle che mettono pressione ma anche quelle che potrebbero aiutare.

Questa spiegazione che suggerisce ci sia un problema nella società, mi fa domandare: che genere di valori promuoviamo? Come giudichiamo chi non raggiunge le più alte mete? Esistono i mezzi per raggiungere gli obiettivi “base”? Come trattiamo chi non è conforme agli standard della nostra cultura?

Il forte desiderio o bisogno di una persona di isolarsi va inteso come parte del problema, tuttavia non bisogna trarre conclusioni affrettate, diagnosi o appiccicarvi l’etichetta di hikikomori, o qualsiasi altra etichetta. Vediamo perché.

Nel 2013 per via del grande numero di hikikomori, il governo giapponese ha stabilito alcuni criteri che li definiscono: l’essersi volontariamente ritirati dalla società e rifiutare di frequentare le scuole o lavorare per più di sei mesi. Non vi rientrano le persone che mantengono delle relazioni sociali offline.

Esiste tuttavia il rovescio della medaglia: la rigidità dei criteri elaborati dal governo giapponese esclude molte persone che spesso lottano duramente contro il desiderio di ritirarsi dalla società, senza metterlo in atto. Anche queste persone soffrono, ma per senso del dovere o volontà continuano a sopportare.

La nota positiva è che la definizione non è patologizzante, non rende il comportamento degli hikikomori una patologia psichiatrica. Infine esclude tutte le persone che hanno ricevuto diagnosi di depressione, schizofrenia, fobia sociale, e che per via di una disabilità si isolano o vengono emarginate.

Il DSM-5 (2013) invece ha introdotto il fenomeno hikikomori nella sezione “sindrome culturale”, classificandolo come esclusivo della cultura giapponese. “Sindrome” non andrebbe inteso come “psicopatologia”, ma come un raggruppamento di indicatori di sofferenza psicologica.

Va ancora valutato quali siano i benefici e gli svantaggi di spostare la “sindrome hikikomori” in un’altra sezione del DSM, dal momento che non c’è un solido consenso sulla definizione di hikikomori e il fenomeno è relativamente sconosciuto fuori dal Giappone, sebbene in crescita.

Per far sì che rientri tra le condizioni rilevabili e note, quindi per dare un volto al fenomeno hikikomori, sarebbe opportuno descriverlo dopo opportune ricerche; mantenendo presente che non può essere definito una psicopatologia e che non è isolato al Giappone.

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Davide Mansi
Studente di Psicologia alla University of East London. Milanese nel cuore, prima di approdare a Londra ho passato un anno girando l’Australia e New York vivendo diverse realtà, finendo per innamorarmi della vita da backpacker e di Sydney. Oltre a macinare dati per ricerche scientifiche in università, i miei principali interessi in psicologia riguardano la comunicazione interpersonale e intrapersonale, la teoria della mente, le meccaniche delle relazioni sociali e lo studio di tecniche per abilitare e riabilitare in questi ambiti. Sul versante professionale intendo usare la psicologia per migliorare la vita delle persone e non metto limiti ai settori che possono beneficiare del supporto di uno psicologo e di una buona dose di creatività. Contatti: davide.mansi94@gmail.com

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