Chiara è una bella ragazza di 20 anni. Riesce nello studio, è al primo anno di università, dopo i cinque anni di scuole superiori vissuti fra alti e bassi della sua serenità. La famiglia, in particolare la madre, ha con Chiara un rapporto molto stretto che da qualche tempo è divenuto estenuante.

Chiara infatti vomita. Beninteso non vomita nel senso letterale del termine. Vomita i suoi pensieri e le sue emozioni sui genitori, i nonni, le amiche, il fidanzatino.

Qualunque evento capace di sollevare la più piccola onda emotiva diviene materia di comunicazione urgente da parte di Chiara. Non si tratta soltanto di emozioni negative generate da fatti spiacevoli. Anche gli accadimenti piacevoli devono essere subito comunicati.

Per di più Chiara pretende che chi è chiamato ad ascoltarla manifesti le sue stesse emozioni. Se Chiara è felice per qualcosa che va progettando (spesso, infatti, si tratta di iniziative che avrebbe deciso di intraprendere) si deve gioire con lei, se qualche evento l’ha addolorata o fatta arrabbiare è obbligatorio condividere dolore o sdegno.

Grazie al telefono cellulare Chiara non trova ostacoli e non ne ammette. Quando impugna il telefonino è sostenuta dal convincimento che chi risponde sia sempre nelle condizioni per farlo, non c’è scusa che tenga, si può essere alla guida senza vivavoce o sotto la doccia (quanti non reggono all’obbligo di rispondere al telefono anche se si trovano in una situazione avversa e non aspettano in cuor loro alcuna telefonata urgente?), è obbligatorio ascoltare!

Quando si è in sua presenza è normale dovere ascoltare i suoi sfoghi, come se ci fosse un preliminare tacito accordo che le cose così devono andare.

La terapeuta che si occupa di lei svolge lo stesso ruolo di tutti gli altri e le sedute hanno sostanzialmente due tipi di andamenti: quando Chiara arriva “caricata” da un recente evento è un fiume in piena. Il racconto è un flusso di parole inarrestabile senza che vi sia la possibilità di intervenire. Non richiede commenti. Quando finisce il tempo della seduta sono necessari in genere un paio di richiami ma normalmente rispetta il tempo. Si alza saluta e se ne va.

Quando arriva in condizioni di quiete, senza nessuna “carica” sembra senza argomenti e senza problemi. La seduta è lenta e monotona come se Chiara non avesse nessun pensiero da comunicare. Come se fosse vuota.

Possibile che sia così vuota ed in altri momenti così piena? La terapia replica l’andamento delle sue relazioni. O “vomita” o se ne sta sulle sue.

Non è questa la sede per parlare di tecnica psicoterapeutica o di riflessioni che si possono fare in base alle diverse teorie. Intendo soffermarmi solo su una osservazione: Chiara in tutte le circostanze relazionali appare o troppo piena o assolutamente vuota. Come leggere questi due aspetti opposti?

Immaginiamo che le emozioni siano come la temperatura e che i pensieri, le rappresentazioni (cioè la fotografia che noi facciamo dei fatti che ci accadono) siano come un liquido nello stato di quiete.

Quando un evento determina un significativo e subitaneo aumento della temperatura il liquido comincia a bollire e lo spazio a sua disposizione risulta progressivamente insufficiente, come nelle caffettiere, ed allora il vapore cerca una via d’ uscita e sfiata con energia. Da qui l’esigenza di comunicare emozioni e pensieri.

Affinché questa sfiatata sia efficace, è necessario che qualcuno la accolga. In psicologia spesso si usa la metafora dello “spazio mentale”, una specie di camera o di recipiente dove possono fluttuare i pensieri senza troppo disturbare il complesso dell’attività psichica di una persona. Come tutti i modelli ha dei pregi e dei limiti.

Il pregio è di far comprendere che i pensieri necessitino di una collocazione in un luogo dove possano essere contenuti, mitigati, metabolizzati, integrati. Si potrebbe dire che questo spazio è un luogo (un circuito, una possibilità di contatto) dove un pensiero possa essere pensato insieme ad altri pensieri.

Il difetto maggiore è quello di rinforzare l’idea che la mente sia un insieme di spazi vuoti dove i pensieri svolazzano come nuvolette senza nessun legame biologico con il cervello.

Tornando a Chiara, la sua caratteristica si può spiegare in due modi. Uno scarso spazio mentale o una facile incandescenza delle sue emozioni prive di un sistema di regolazione, di una specie di termostato (come si vede parlando di processi mentali si è sempre costretti ad usare termini che riguardano altri congegni) o, terza possibilità, una combinazione delle due condizioni.

Quale utilità ricaviamo da queste considerazioni? Ricaviamo un po’ più di comprensione circa la natura della relazione. Desidero sottolineare che la comprensione della natura di una relazione costituisce l’acquisizione di un bel vantaggio perché aiuta a scegliere risposte più opportune e ridurre la quota di aggressività che potrebbe caratterizzarle.

Per esempio, se accettiamo l’idea dello spazio mentale possiamo considerare che queste “vomitate” corrispondono a prendere in prestito il nostro spazio mentale. Questo ci consente di considerare la richiesta di aiuto che contengono.

Riconoscere una richiesta di aiuto in una comunicazione che potrebbe disturbarci genera una maggiore sintonia, ci fa capire meglio che situazione l’altro sta vivendo. In questo modo diventa più facile prestare il nostro spazio mentale.

Una volta riconosciuto questo aspetto, possiamo rivedere le storia di questi prestiti e vedere quanto, con il nostro comportamento, li abbiamo alimentati. Questi comportamenti sono spesso l’espressione di una dipendenza profonda e, continuando nella nostra metafora, del fatto che non abbiamo favorito lo sviluppo di un autonomo spazio mentale nella mente di nostro figlio.

Ciò può avvenire per motivi diversi. Per esempio, il figlio è stato abituato dai genitori a confidare qualunque problema per ricevere da loro soluzioni e suggerimenti senza nessuna sollecitazione a ricercare una sua soluzione.

In genere si tratta di genitori che hanno una tendenza ad anticipare i bisogni dei figli, coltivando in loro l’idea che abbiano una soluzione per tutto. Questi genitori non hanno la consapevolezza di che pesante ipoteca vanno sottoscrivendo con questo atteggiamento.

Nel corso dell’infanzia, infatti, la fatica della ricerca di soluzioni per i problemi dei figli è abbastanza naturale, ma dovrebbe includere parallelamente un lento processo di emancipazione dei figli stessi.

Se si rimane inchiodati a queste abitudini ci si trova a dover affrontare dei problemi che sono risolvibili solo in prima persona dai nostri figli. Di questo tipo fanno parte i problemi relazionali e tutte le situazioni che mettono in gioco l’autostima.

Possiamo offrire qualche punto di vista, ma una soluzione per essere tale deve essere vera e per essere vera deve essere trovata da chi sta vivendo il problema.

Naturalmente una volta che l’abitudine a “vomitare” si è instaurata non possiamo fare i terapeuti dei nostri figli, però potrebbe essere utile usare il nostro spazio mentale in maniera diversa da una semplice discarica.

Per esempio, una buona cosa è di mostrare semplicemente un controllo emotivo di fronte alle comunicazioni che vengono date come un annuncio di catastrofe o come offese imperdonabili. È una proposta emotiva diversa che dovrebbe associare interesse per ciò che viene comunicato ad una coloritura emozionale di grado diverso.

È un modo di segnalare che è possibile fermarsi a pensare a ciò che è appena stato comunicato. Addirittura ci si può pensare insieme. Si contiene l’urgenza con l’interesse non con una controreazione.

Se all’impulsività si risponde con impulsività si mette in moto un circolo vizioso che esalta le emozioni che sono in gioco. È la differenza che c’è fra la madre che si agita per il pianto di un bambino ed una madre che se ne prende cura con serenità accogliendo e consolando con le manovre più adatte che si trovano solo con la pazienza.

I vomitatori hanno poca memoria. Conosco genitori che rimangono turbati per qualche giorno per la portata del problema che hanno colto nella comunicazione del figlio per scoprire in seguito, puntualmente, che quello nemmeno si ricorda del dramma che aveva montato.

Il vomito svuota, libera, ma non produce apprendimento perché per apprendere è necessario far propria un’esperienza. Vomitare pensieri ed emozioni è in qualche modo una cessione di proprietà.

Chiara lentamente ha riconosciuto gli svantaggi del suo comportamento ed ha imparato poco alla volta a tenere un po’ per sé fatti ed emozioni, ne ha guadagnato in autonomia, autostima e miglioramento della qualità delle sue relazioni.

Consigli pratici:

1) Evitare di fare da cassa armonica delle emozioni che vengono comunicate animandoci delle stesse emozioni. Ovvero, i genitori non devono a loro volta arrabbiarsi se viene espressa loro della rabbia o spaventarsi a loro volta se viene comunicata paura, ma al contrario fornire l’esempio che i fatti narrati possono essere sostenuti senza farsi travolgere dalle emozioni, riconoscendo al contempo che è normale provare delle emozioni e si può trovare un modo per convivere con esse senza diventarne schiavi.

2) Al contempo, i fatti che vengono raccontati non devono essere svalutati. I figli “vomitanti “non si ascoltano, almeno noi dobbiamo ascoltarli con equilibrio.

3) Provare a ripetere quello che si è ascoltato per chiarire se abbiamo ben capito. Contemporaneamente aumenteremo la consapevolezza di ciò che ci viene comunicato. Questo è un primo passo per favorire l’attività di pensiero.

Insegnare ad essere consapevoli delle proprie comunicazioni e dello scopo che hanno è una attività molto preziosa. Tutto ciò che favorisce lo sviluppo di questa capacità genera relazioni più efficaci e piacevoli.

 

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Furio Ravera
Laureato in Medicina e Chirurgia all'Università di Milano, ha conseguito la specializzazione in Neuropsichiatria Infantile. Dal 1980 è psichiatra presso la Casa di Cura Le Betulle dove è direttore dei reparti "Abuso e Dipendenze da Sostanze Stupefacenti e Farmaci" e "Disturbi di Personalità e Disturbi Psicotici". Ha completato il 1° Corso MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) e il Corso di 1° e 2° Livello EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) per il trattamento dei traumi. Insieme a Roberto Bertolli ha fondato le Comunità Terapeutiche Crest, la Società di Studio per i Disturbi di Personalità (SdP), la Comunità Terapeutica Cima di Milano e il Centro Terapeutico La Ginestra di Milano. Ha prestato numerose consulenze presso Sert, Casa di Cura Villa del Principe, Casa di Cura Villa dei Pini. Già Professore a contratto presso la Scuola di Psicologia Clinica dell'Università di Milano Bicocca, tra le numerose pubblicazioni annovera "Un fiume di cocaina" e "Le regole e la manutenzione della Vespa".

2 COMMENTI

    • Buongiorno.
      Si tratta di un percorso personale non prestabilito che deve tenere conto del funzionamento familiare. Sicuramente un consulto psicologico può aiutare a comprendere su quali aspetti è utile lavorare per superare l’impasse.

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