L’autolesionismo, ovvero l’atto di procurarsi da sé ferite corporee di diversa entità, è stato a lungo usato come termine ombrello che raccoglieva diverse categorie e modalità di atti autolesivi. Tale uso variegato del sostantivo ha per anni influenzato le ricerche, i cui risultati si sono rivelati spesso di difficile interpretazione oltreché non attendibili.

I vocaboli più diffusi per parlare di questi comportamenti sono: Self-harm (SH), Deliberate self-harm (DSH), Self-injury (SI), Non-suicidal self-injury (NSSI), Self-mutilation (SM), Self-inflicted violence (SIV), Self-injurious behaviours (SIBs) (APA, 2013; Sutton, 2007).

SH e DSH sono nomi usati prevalentemente nel Regno Unito, mentre i termini SI, NSSI, SM, SIV e SIBs sono adoperati con maggior frequenza negli Stati Uniti (Sutton, 2007).

Con il termine self-injury (SI) si definiscono quei comportamenti deliberati, ma socialmente non accettati, che provocano un danno corporeo superficiale e che non implicano alcun intento suicida cosciente (Sarno, 2008).

Si tratta quindi dell’autolesionismo comunemente concepito, che viene compiuto tagliandosi con una lametta, bruciandosi, incidendosi la pelle,  sfregandola eccessivamente oppure picchiando e urtando parti del proprio corpo.

Questi comportamenti non pongono a rischio la vita del soggetto e, come vedremo, paradossalmente, non hanno come obiettivo primario quello di danneggiare il corpo (Claes & Vandereycken, 2007; Favazza, 1998).

Il self-mutilation, invece, comprende oltre l’autolesionismo comunemente definito, anche forme maggiori come enucleazione oculare, castrazione, amputazione di parti del corpo, in genere associate a psicosi o gravi intossicazioni (Favazza, 1996).

Diversamente dal self-injury, questa tipologia di autolesionismo ha come obiettivo principale quello di menomare o amputare il corpo (Sarno, 2008).

Per quanto riguarda il termine self-harm, in letteratura è stato adoperato (Hawton & Catalan, 1987), sia per fare riferimento a comportamenti di self-injury, che di self-mutilation, sia per altre tipologie di agiti che sono autolesivi solo in senso lato.

Le forme non dirette di self-harm, come appunto l’abuso di sostanze, i disturbi alimentari e agiti spericolati come guidare in modo spericolato, ingaggiarsi in sport estremi o avere rapporti sessuali promiscui, sono state anche definite Non-direct self-harm (NDSH).

Esse si differenziano dal self-injury in quanto l’intento primario non è quello di infliggersi ferite e i danni non sono direttamente osservabili (Sutton, 2007). Inoltre, gli individui che commettono NDSH spesso minimizzano o negano gli effetti dei loro comportamenti (Sutton, 2007).

Self-harm e deliberate self-harm sono anche considerati sinonimi di tentato suicidio o parasuicidio e possono includere l’avvelenamento, l’overdose (self-poisoning) e l’ingestione di oggetti (Muehlenkamp et al., 2012; Sarno, 2008).

Il self-poisoning, invece, concerne l’ingestione o inalazione di sostanze dal potenziale tossico e lesivo, i cui episodi possono essere accidentali, deliberati, fatali o non fatali (Camidge, Wood & Bateman, 2003).

Non rientra nei comportamenti di self-injury perché il danno non è visibile e gli intenti meno chiari (Sutton, 2007).

Di conseguenza, in alcuni casi il termine self-harm può esse utilizzato per includere anche gli atti propriamente detti di self-injury, come accade per esempio nel DSM V (APA, 2013), all’interno del quale, nella descrizione della personalità borderline, viene utilizzata tale espressione nel suo significato più ampio.

Oggi si parla anche di Non-suicidal self-injury (NSSI), vocabolo meno invocativo di forme più aggressive di autolesionismo che è stato usato, nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disordini Mentali (DSM V) (APA, 2013), per definire un disturbo vero e proprio, differenziandolo dalle altre diagnosi.

Questo passaggio è molto importante perché in tempi passati si considerava l’autolesionismo come una mera manifestazione di disagio associata ad altri disturbi, mentre oggi è possibile diagnosticare una vera e propria psicopatologia fondata esclusivamente sull’autolesionismo.

L’autolesionismo, concepito come NSSI e self-injury, serve a ottenere sollievo da sentimenti negativi come rabbia, vergogna, ansia, tensione o panico, tristezza, frustrazione e disprezzo o da pensieri caotici e disorganizzati (Walsh, 2006).

È quindi una strategia che restituisce il controllo e permette di influenzare il proprio pessimismo, impedendogli pertanto di raggiungere livelli estremi, che sono invece tipici del suicidio (Walsh, 2006). Approfondiremo meglio la questione nel prossimo articolo.

Bisogna prestare attenzione al fatto che non si può parlare di diagnosi di NSSI quando i comportamenti autolesivi si manifestano esclusivamente in associazione a episodi psicotici, deliri. In questi casi il comportamento è un effetto di un disturbo appartnente allo spettro psicotico.

Stessa cosa vale nei casi di intossicazione o astinenza dall’uso di sostanze stupefacenti, per i disturbi autistici e nella condizione in cui sia presente un ritardo mentale.

Per quanto i concetti di self-injury e NSSI appaiano sovrapponibili, vi sono delle considerazioni in merito da fare: in primis nella diagnosi di NSSI sono esclusi alcuni comportamenti come la tricotillomania (tirarsi i capelli) e il disturbo da escoriazione (skin-picking) che invece vengono inclusi da molti autori nelle loro classificazioni (Sutton, 2007; Walsh, 2006), in secundis da una parte abbiamo una serie di gesti autolesivi che possono manifestarsi in diverse condizioni e situazioni, dall’altro una diagnosi di disturbo psicopatologico vero e proprio.

Uso questo articolo come introduzione per poter affrontare successivamente, in maniera meglio approfondita, l’autolesionismo inteso come self-injury. Difatti accade sovente che non vi sia chiarezza rispetto al significato del termine autolesionismo.

È importante, specialmente nel setting clinico, saper differenziare tra loro le diverse tipologie di autolesionismo, in quanto sono differenti gli obiettivi e il modo in cui si interviene terapeuticamente. Come abbiamo appena riscontrato è possibile distinguerle per gravità, frequenza dell’atto, cause e conseguenze.

 

Bibliografia

American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-5®). American Psychiatric Pub.

Camidge, D. R., Wood, R. J., & Bateman, D. N. (2003). The epidemiology of self-poisoning in the UK. British Journal of Clinical Pharmacology, 56(6), 613–619. http://doi.org/10.1046/j.1365-2125.2003.01910.x

Claes, L., & Vandereycken, W. (2007). Self-injurious behavior: differential diagnosis and functional differentiation. Comprehensive psychiatry, 48(2), 137-144.

Favazza, A. R. (1996). Bodies under siege: Self-mutilation and body modification in culture and psychiatry. JHU Press.

Favazza, A. R. (1998). The coming of age of self-mutilation. The Journal of nervous and mental disease, 186(5), 259-268.

Hawton, K., & Catalan, J. (1987). Attempted suicide: A practical guide to its nature and management. Oxford University Press.

Muehlenkamp, J. J., Claes, L., Havertape, L., & Plener, P. L. (2012). International prevalence of adolescent non-suicidal self-injury and deliberate self-harm. Child and adolescent psychiatry and mental health, 6(1), 10.

Sarno, I. (2008). Autoferimento. Aracne editrice.

Sutton, J. (2007). Healing the Hurt Within 3rd Edition: Understand self-injury and self-harm, and heal the emotional wounds. Hachette UK.

Walsh, B. W. (2006). Treating self-injury: A practical guide.
CONDIVIDI
Articolo precedenteSballo: disagio e dissociazione nel divertimento estremo
Articolo successivoPerché gli animali ballano i Backstreet Boys?
Vittorio Arrigoni
Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo Costruttivista Relazionale in formazione e cofondatore di Cultura Emotiva. Lavoro all'interno di una Comunità Terapeutica per adolescenti con disturbi psichiatrici. Sono insegnante di Mindfulness e insegnante di MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy) per la depressione, titoli che ho acquisito, dopo anni di pratica meditativa, attraverso il Master di Mindfulness in ambito clinico diretto dal Prof. Fabrizio Didonna. La mia passione rimane tuttavia la Mindfulness in relazione, ambito nel quale ho conseguito un diploma sotto la supervisione di Anne Overzee e Deirdre Gordon, docenti senior del Karuna Institute (UK). Sono anche insegnante in formazione di Mindful Self-Compassion (MSC), avendo frequentato il primo teacher training organizzato in Italia in collaborazione con il Center for Mindful Self-Compassion. Tra le esperienze più significative della mia vita ho vissuto a Cipro per cinque mesi frequentando l’University of Cyprus (UCY) durante il mio Erasumus. Le persone che ho incontrato mi hanno infuso un profondo senso di abbondanza, condivisione e comunità del quale desidero rendere tutti compartecipi. Contatti: v.arrigoni6@campus.unimib.it

ADESSO COSA PENSI?