…le parole hanno una vita propria, come la gente o gli animali. Possono palpitare, svanire o amplificarsi. Passare attraverso le parole è come camminare in mezzo alla folla. Rimangono delle facce, delle sagome che si dileguano presto nel nostro ricordo, oppure vi si fissano, non si sa bene perché. In quel periodo, estraevo una parola dalla massa delle altre parole, ed essa cominciava ad esistere, diventava una cosa importante, forse la più importante e mi abitava, mi torturava, non mi lasciava più, mi appariva nel sonno e mi aspettava al risveglio.

Ora affrontavo la Cosa. Non era più così vaga, benché non fossi ancora in grado di definirla. Quella sera accettai la pazza per la prima volta. Ammisi la sua esistenza. Volli accettare la malattia così com’era. Compresi che ero io la pazza che mi faceva paura, perché portava la Cosa dentro di sé.

(Marie Cardinal,  Le parole per dirlo)

 

Con un po’ di terra Dio, il Signore, fece tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come gli avrebbe chiamati. Ognuno di questi animali avrebbe avuto il nome datogli dall’uomo

(La Bibbia, Libro della Genesi)

 

Questi sono tre esempi, tratti da libri molto lontani tra loro, in cui le parole hanno un’infinita importanza e danno senso a quello che vive in noi e che abita fuori da noi.

Adamo diede un nome alle cose che lo circondavano, trasformando quello che era un mondo caotico e senza voce in qualcosa di definibile, afferrabile ed abitabile. Catherine a suo modo ha fatto lo stesso nella sua lunga analisi, raccontata da un vicolo parigino nei primi anni 60. Un’esperienza che la porterà dall’essere una donna sull’orlo del baratro al diventare una scrittrice di successo.

Dare una parola alle cose?

Che significa? Sembra un’operazione banale. Ai bambini si insegnano i nomi delle cose. I poeti e gli enigmisti giocano con le parole.

Nella sofferenza psichica e nella sua difficile cura, dare un nome alle cose è un’operazione fondamentale. Legare una parola ad una cosa – qualunque essa sia – diviene così un modo potentissimo per vederla, riconoscerla e gestirla.

Attribuire una parola a ciò che abbiamo dentro e ci abita furioso, ci angoscia e non ci lascia in pace è il passo principe per fraternizzavi, per imboccare la via della guarigione. È come un’operazione di nascita, do il nome a qualcosa per permettergli di esistere.

Le emozioni senza nome, le tempeste interiori, la rabbia e l’ansia vengono rabbonite ed iniziano a placarsi quando possiamo nutrirle di parole, parole giuste, parole cercate, trovate, sudate ed a volte create ad hoc per dare voce a ciò che sentiamo e siamo.

Le parole divengono un filo, che collega cuore e cervello, che permette di pensare ed essere meno in balia del tremendo che a volte ci abita.

La lingua straniera

Pensiamo a quando andiamo in un paese di cui conosciamo a malapena la lingua e ci troviamo a parlare. Il vissuto è spesso quello della frustrazione, come se girassimo intorno a ciò che vogliamo dire, ma sempre è approssimativo, sempre mal compreso, sempre abbiamo l’impressione che ciò che diciamo sia faticoso, sia il massimo che possiamo fare, ma sia lontano da come semplicemente lo diremmo nella nostra lingua.

Ci sentiamo incompresi, e la nostra stessa essenza ne rimane ferita. Può essere lo stesso nei confronti della nostra interiorità e della nostra sofferenza.

Come funziona? Rabdomanzia

Una volta riconosciuta l’importanza della giusta parola per noi sorge la domanda, come? Come nascono le nostre parole? Mi verrebbe da dire che nascono dal mix fra caso, volontà e coraggio.

Il caso perché mai si conosce la giusta parola prima di incontrarla, la volontà perché è un processo che va desiderato e nutrito ed il coraggio perché per scovare le parole anelate bisogna esplorare e spingersi verso lo sconosciuto.

In seduta insieme al terapeuta ci si trasforma in rabdomanti, che siedono ed attendono le vibrazioni della giusta parola. Per questo è importante lasciare scorrere le parole, come un fiume, come una sorgente, fino a che tra la massa di parole senza senso non viene trovata una parola, una preziosissima parola che risuona dentro di noi come un richiamo benefico.

E poi passare alla parola successiva, fino a che quasi tutto non è stato scandagliato, visto, abbracciato ed accettato.

Quando diamo una giusta parola alla nostra angoscia essa si accosta un po’ di più a noi, come se si umanizzasse e accettasse di dialogare. La parola avvicina l’angoscia ed il dolore, li cura, li mostra, permettendoci di conoscerli.

La giusta parola fa posare loro le armi, gli fa volgere gli occhi verso di noi mostrandoci che siamo noi la nostra angoscia; essendo parte di noi questa ci riconosce, si cheta, si ammorbidisce, sceglie di perdonarci e farsi perdonare

Le parole-cerotto

Possiamo pensare al lavoro terapeutico sulle parole come ad un cerotto: un cerotto-parola che viene applicato sulla ferita, sui nostri buchi mentali che costituendosi come mancanza di senso e significato nel tessuto della psiche producono angoscia e sofferenza.

Il cerotto rimane sulla ferita per un tempo lungo, dopodiché si logora, si consuma, si sporca ed in quel momento viene via, si stacca.

Qui vi sono due possibilità: se la ferita è ancora sanguinante dovremo applicare un nuovo cerotto, una nuova parola che più della precedente sarà vicina al nostro bisogno di significato. Oppure troveremo una ferita guarita, una cicatrice, che rimarrà sempre sulla pelle, come ricordo di ciò che è stato, come segno ineliminabile di un dolore passato che ormai non duole più.

Allora la parola sarà diventata finalmente nostra e passerà da una parola indispensabile a guarirci ad una parola a cui penseremo con la stessa nostalgia che avvolge i ricordi importanti. Il potere racchiuso nella parola sarà passato a noi, diventerà parte della nostra psiche, a disposizione.

Terapia: la lingua condivisa

Nella terapia le parole si creano insieme, tra chi in quel momento ha bisogno e chi è disposto e interessato ad aiutare. Nello spazio tra i due si crea la giusta parola che bonifica il dolore.

Una parola creata da soli ha comunque valore. Ma nel campo del dolore psichico può assumere il valore di un’allucinazione: come faccio a sapere che è una buona parola? Come faccio a essere sicuro che non sto impazzendo nel creare delle parole fra me e me? Come posso essere sicuro che questo gioco non mi travolgerà e non ne rimarrò doppiamente ferito, illuso? E poi: chi mi vede mentre creo le parole?

Per questo la terapia si fa in due e non davanti ad uno specchio, per avere qualcuno che sorvegli, aiuti, sostenga e testimoni. Insieme alle singole parole cerotto si va a creare un linguaggio, che lentamente, come un’edera che cresce, unisce le emozioni al pensiero, il dolore alla domanda di senso; dà vitalità al linguaggio, genera la possibilità di esprimere, di rendere condivisibile un qualcosa che altrimenti rimarrebbe silenzioso, sfuggente, tossico.

Per questo man mano che le terapie proseguono iniziano ad avere un loro tipico dialogo, dei loro ritmi, una loro lingua (succede la stessa cosa nelle scienze: ogni nuova scienza o tecnica per nascere ha bisogno di parole nuove. Essa esiste solo una volta che ha partorito un nuovo linguaggio adatto a sostenerla).

Man mano che questa lingua si crea aderisce in modo sempre più preciso alla necessità espressiva dei due e permette al dolore inutile di sciogliersi, di modificarsi, di essere digerito e superato.

Il pensiero e le emozioni dialogano e danzano in modo più fluido, come zone senza più barriere, zone connesse, come se la lingua edificasse delle infrastrutture, delle strade, ponti e guadi nella mente.

Questo è uno dei processi terapeutici che ci avvicina a noi stessi. Le parole da semplici elementi del linguaggio diventano così concreti strumenti di cura.

 

Letture consigliate:

Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Bompiani, 1984

http://www.rivistapsicologianalitica.it/v2/PDF/16_1977-Esistere_come_donna/16-1977-cap10.pdf

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Gabriele Ramonda
Sono psicologo clinico specializzando in Psicoterapia Psicoanalitica. Collaboro con il Centro di Psicoterapia presso l'ASL Torino1, ricevo in studio a Chieri e a Torino. Collaboro con i servizi sociali torinesi nel settore disabilità. Ho lavorato per alcuni anni come psicologo in comunità terapeutica “Il Porto Onlus“, dove ho seguito in tempi diversi disturbi di personalità, dipendenze e psicosi. Mi sono poi dedicato alla riabilitazione psichiatrica in gruppi appartamento. Oggi mi occupo anche di marketing, fotografia e comunicazione: ho co-ideato e co-fondato Nora Photobooth, prima impresa italiana a occuparsi di Photobooth nel campo degli eventi e della comunicazione. Lettore appassionato, disorganizzato ed un po' anarchico. Scrivo articoli, riflessioni e poesie confuse. "Considero la psicologia e la psicoterapia non solo come dei solidi e provati strumenti di cura, ma anche come metodo di ricerca di senso, di possibilità di riflessione e conoscenza di sé che va al di là del semplice adattamento alla realtà." Contatti: info@psicologiaramonda.it

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