Oggi voglio raccontarvi una storia. Una di quelle storie molto comuni ma di cui si parla poco in giro, una storia dagli interessanti ed inaspettati risvolti psicologici. Si tratta di un gruppo di ragazzi dalla pelle scura, vivono per strada, vengono da molto lontano.

Qualcuno aveva raccontato loro di un’Italia libera. Molti di loro hanno messo da parte risparmi per una vita, aspettando il giorno in cui ne avrebbero accumulati abbastanza per poter andare via dal loro inferno.

Vi porterò come esempio una storia, la storia di qualcuno che ho avuto la fortuna di conoscere, ma in realtà è solo una storia come tante altre. Si tratta di un ragazzo: 20 anni, pelle scura, sorridente; è arrivato in Italia, sbarcato in Sicilia, lo spediscono al Nord, va a vivere in una casa per migranti che dopo qualche anno viene chiusa.

Alcuni di quei ragazzi vengono spostati in altre strutture, mentre altri vengono abbandonati a loro stessi. Tra quelli abbandonati c’è il protagonista della nostra storia, lui ha vissuto per un po’ a casa di amici; ha cercato lavoro ma senza successo; ad un certo punto litiga con le persone con cui vive, non sa più dove dormire; si compra una tenda e va a vivere in mezzo ad una strada con altri ragazzi dalla pelle scura.

Un giorno arriva la polizia, dice loro che non possono stare lì, li manda via con la forza. Il nostro protagonista, per l’ennesima volta, ha perso la sua casa, per l’ennesima volta qualcuno gli ha detto che quello non è il suo posto. Ma allora qual è il suo posto? Dov’è che potrà dire di essere, finalmente, a casa? Merita tutto questo?

Vi lascio a questi interrogativi. La domanda a cui proverò a rispondere, invece, è la seguente: che ripercussioni esperienze di vita, come quella che vi ho brevemente descritto, possono avere sull’individuo?

Dati statistici dimostrano che i migranti presentano con una certa frequenza il Disturbo da Stress Post Traumatico.

Questo dato è tutt’altro che sorprendente. Il disturbo può manifestarsi in quelle persone che sono state esposte ad un evento traumatico che implica morte, minaccia di morte o lesioni gravi, la risposta della persona comprende un senso di paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore.

Pensiamo all’esperienza che molti libici, ora residenti in Italia, hanno vissuto: la maggior parte di loro ha raggiunto la nostra penisola via mare, sottoponendosi ad un’esperienza disumana; come ben sappiamo questi viaggi mettono in grave pericolo la vita dei migranti e, alcuni di loro, muoiono.

Non è difficile definire questo evento come “traumatico”. Molti altri sono i traumi a cui, facilmente, i migranti saranno esposti all’arrivo in Italia: pensiamo al nostro amico dalla pelle scura e al trauma subito quando, per più volte, ha perso la propria “casa”. Quanto potrebbe essere traumatico, per noi, perdere, da un giorno all’altro, la nostra casa?! Che conseguenze eventi come questo hanno sul nostro stato psicologico?

I sintomi caratteristici di un disturbo post-traumatico sono i seguenti:

– Rivivere l’evento traumatico.

Il migrante tende a rivivere l’evento in vari modi: i ricordi che lo assillano, impedendogli di vivere con serenità il presente; sogni spiacevoli che accompagnano certe loro notti e li disturbano; sperimentano un forte disagio se esposti a fattori che ricordano o assomigliano all’evento.

– Evitamento persistente.

Consiste nella tendenza ad evitare tutto ciò che può ricondurre all’evento traumatico, spesso questo atteggiamento conduce ad estraneità verso gli altri e affettività ridotta.

– Iperarousal.

Per iperarousal s’intende difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, irritabilità, difficoltà a concentrarsi, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme. Immaginiamo un migrante affetto da questo disturbo che si scaglia contro un amico che gli urla contro: alti livelli di stress lo conducono ad essere continuamente sulla difensiva, vuole proteggersi.

Cosa possiamo fare noi cittadini a riguardo? Essere più comprensivi ed empatici verso l’altro. L’altro che ha bisogno di noi, l’altro dalla pelle scura, lo straniero che, disperato, ci chiede aiuto. Cosa possiamo fare noi psicologi a riguardo? Intervenire e curare.

Attualmente, in Italia, esistono centri di accoglienza ideati appositamente per migranti; molti sono gli psicologi che lavorano all’interno di queste strutture al fine di aumentare il benessere dei migranti e di assistere anche gli addetti ai lavori.

Considerando che la maggior parte delle persone che sono ospitate all’interno di queste strutture hanno subito eventi traumatici, si potrebbe prestare maggiore attenzione al rischio di un eventuale disturbo post-traumatico e intervenire a riguardo nel modo più efficace.

L’Emdr, secondo quanto riportato dalle linee guida NICE, insieme alla terapia cognitivo comportamentale, è uno degli strumenti più efficaci per la cura del DPST. Si può fare diagnosi di questo disturbo solo se i sintomi continuano a manifestarsi dopo 30 giorni dall’evento o, comunque, entro 3 mesi.

Esiste, però, un settore della psicologia detto “d’emergenza“: se la persona che abbiamo di fronte è stata esposta ad un evento che, oggettivamente, è di una certa gravità e ha prodotto in lui una forte reazione emotiva, possiamo intervenire con l’Emdr in un’ottica preventiva.

Mi viene in mente un ragazzo che, dalla Libia, arriva in Italia e, durante il tragitto, a causa del clima sfavorevole, vede morire la madre e la sorella. Intervenire con cure preventive, in questo caso, mi sembra più che adeguato.

 Ma in cosa consiste l’Emdr? Cosa significherà questa strana parola?

In italiano possiamo tradurlo come ” Desensibilizzazione e riprocessamento con i movimenti oculari”.

 Come usiamo questo strumento?

Immaginiamo di dover intervenire sul ragazzo libico di cui parlavamo prima. Probabilmente avremmo di fronte una persona che urla, piange ed è visibilmente sconvolta, oppure, opzione altrettanto probabile, vederla silenziosa, muta, rigida.

In entrambi i casi quel ragazzo non è nella condizione fisiologica ideale per sottoporlo alla desensibilizzazione: bisogna “normalizzarlo”, riportarlo nel “qui e ora”. Possiamo farlo con un abbraccio a farfalla, cioè stringendolo a noi riproducendo il gesto della madre che prende in braccio un neonato; possiamo lanciargli una pallina per “risvegliarlo” dalla fase di trance in cui si trova; possiamo chiedergli di indicarci qualcosa che lo colpisce particolarmente dell’ambiente circostante.

Solo dopo averlo normalizzato, quando sarà disposto a raccontarci quello che è successo, possiamo iniziare. Come prima cosa gli chiederemo di immaginare un posto che lo conduce ad uno stato di sicurezza e serenità. Il ragazzo in questione potrebbe, per esempio, descriverci il parco vicino casa in cui andava a rilassarsi.

A questo punto, gli chiediamo di ripercorrere mentalmente l’evento traumatico; è importante che vi sia anche un’attivazione emotiva connessa al ricordo; in contemporanea gli verrà chiesto di seguire con gli occhi il nostro dito che si muove da sinistra a destra. Il movimento oculare sembrerebbe essere importante per riuscire a metabolizzare correttamente l’evento.

Quando l’attivazione fisiologica diventa troppo forte si porta il paziente a ritornare, mentalmente, nel suo “posto sicuro”. Da un punto di vista neurologico il movimento oculare permette di “sbloccare” il ricordo traumatico facilitando la comunicazione tra emisfero destro (più legato all’emotività) ed emisfero sinistro (più razionale).

L’unico modo per accedere all’evento traumatico è concentrarsi sull’ aspetto emotivo, cercando, poi, di razionalizzarlo. Tecniche come questa hanno un effetto più duraturo dei farmaci, non hanno effetti collaterali e sono meno costose.

Un migrante affetto da un disturbo post-traumatico, se non curato, avrà un peggiore funzionamento, minore benessere e con maggiori probabilità resterà un “peso” per la società. Penso al mio amico dalla pelle scura, a quanto un buon intervento preventivo avrebbe potuto aiutarlo.

Rowan scrisse: “Spesso è più facile indignarsi per un’ingiustizia commessa dall’altra parte del mondo che per una oppressione e discriminazione a mezzo isolato da casa.”

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