Articolo di Fabrizio Scarano

La nostra società è sempre più multiculturale e le prospettive geopolitiche future sembrano confermare ampiamente questo trend.

Dovremo quindi imparare a convivere con persone provenienti da background socio-culturali molto diversi da quelli a cui siamo più abituati.

Nonostante ciò, alcune persone provano un senso di disagio, inadeguatezza, e talvolta disprezzo, in situazioni di convivenza con stranieri. Perché? Razzisti si nasce o si diventa? Ha senso porsi questo quesito o è un po’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina?

In realtà un senso ce l’ha, e la psicologia ci aiuta a capire perché.

Una equipe di studiosi americani ha condotto un esperimento coinvolgendo adulti, adolescenti e bambini. A questi soggetti venivano mostrate immagini di persone appartenenti a culture diverse dalla propria. Nel fare ciò, attraverso una risonanza magnetica, venivano registrati eventuali segnali e cambiamenti a livello celebrale, con particolare riferimento all’amigdala, quell’area che si attiva in modo particolare quando abbiamo paura, quando cioè ci troviamo in situazioni di pericolo.

I risultati sono sorprendenti. I bambini non mostravano alcun tipo di attivazione particolare di fronte a soggetti “stranieri”, e quindi, si potrebbe dire che i bambini non percepiscono un altro essere umano come diverso solo a partire dalla sua appartenenza etnica.

Tuttavia, a partire dai 14 anni le cose cambiano. Gli adolescenti, così come gli adulti, registrano invece un funzionamento dell’amigdala diverso in presenza di volti stranieri. Ciò significa che, almeno in una certa misura, si riconosce l’altro come diverso da sé. Ciò che scientificamente viene chiamato “Other-Race-Effect“. Ciò non significa essere razzisti, ma è un dato molto interessante rispetto alla comprensione del fenomeno.

A questo punto proviamo a capire il perché. Perché il diverso spaventa e ci attiva anche dal punto di vista fisico? Prova a ricordare quella volta in cui ti trovavi in un paese o in un contesto a te poco conosciuto.

Come ti sentivi? Da cosa deriva quel sentimento di disagio o di incomprensione?

Ciò che è diverso ci chiede energie supplementari e costi superiori rispetto a quelle situazioni di cui conosciamo tutte o gran parte delle variabili in gioco. Questo perché ciò che percepiamo come diverso ci chiede di modificare i nostri schemi mentali e affettivi per abbracciare e comprendere una nuova situazione.

E questo è faticoso. Psichicamente e anche fisicamente.

Dunque, non solo ciò che è diverso ci fa paura, ma tendiamo a preferire e a valutare ciò che ci appartiene e i gruppi di cui facciamo parte. “Loro sono nel torto, hanno sbagliato tutto. Noi ci siamo comportati benissimo” oppure “Sono tutti ladri, approfittatori e sfruttatori. Noi siamo gente per bene”. Quante volte hai sentito ripetere queste frasi? Ahimè tante volte, suppongo.

Sono esempi molto quotidiani di ciò che viene definito nelle scienze sociali come “favoritismo ingroup”, cioè tutta una serie di strategie cognitive che, più o meno consapevolmente, mettiamo in atto e attraverso cui favoriamo, cioè valutiamo positivamente, ciò che è proprio, che sia un oggetto, un gruppo, un’appartenenza.

Ecco allora che tutto ciò che appartiene o che è simile a sé ha valenza positiva, mentre tutto ciò che si discosta troppo assume un valore negativo. Se portato all’estremo questo meccanismo può essere molto pericoloso, e ci aiuta infatti a capire molti fatti storici, anche quelli più drammatici e incomprensibili.

Ma tornando allo studio con cui abbiamo iniziato… valgono le stesse regole quando anziché osservare volti di adulti, osserviamo bambini? No.

Uno studio italiano ha messo in luce come di fronte ad un bambino, di pochi mesi o anni, l’appartenenza etnica di questo non ha alcun effetto in termini di percezione cognitiva. Senso di protezione, dolcezza e premura è ciò che i bambini suscitano. Ciò significa che

gli adulti sono naturalmente programmati per prendersi cura della prole, a prescindere dal colore della pelle.

Prova a pensare come si comportano gli adulti alla vista di bambini molto piccoli. Molto spesso tendono a modificare il proprio tono di voce, assumendo una mimica particolare. I bambini hanno infatti una fisionomia molto particolare: guance gonfie, testa grande rispetto al resto del corpo, e rotondità di vario tipo.

La psicologia evoluzionista mette in luce una chiara funzione di questi tratti fisici: stimolare comportamenti di cura negli adulti della specie.

Sembra che vi siano dunque due tendenze contrapposte: da un lato la tendenza a favorire coloro simili a sé, appartenenti al proprio gruppo, dall’altra vi è una spinta biologica molto forte per la conservazione della specie nella sua totalità.

Si tratta tuttavia di una contraddizione solo apparente, poiché entrambe queste spinte hanno come finalità la prosecuzione della vita, anche se in modi molto diversi. Tuttavia, anche alla luce dei profondi mutamenti che stanno attraversando le nostre società, in un futuro molto vicino, le società saranno sempre più eterogenee e multiculturali e meccanismi di esclusione potranno diventare pericolosi e mal adattivi.

Si potrebbe dunque pensare di avviare una riflessione consapevole su queste tendenze che animano la nostra vita biologica e psichica, al fine di poterle meglio “controllare” e di incrementare la qualità del vivere in comunità.

Il nostro cervello, tuttavia, è programmato per non essere razzista con i bambini e questo dato, nonostante tutto, infonde un pochino di speranza.

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