Oggi sempre di più ci troviamo di fronte al tema della violenza, dell’aggressività.

Sempre più spazio viene dedicato soprattutto ad una sua forma particolare, chiamata violenza contro le donne, violenza di genere, aumentando la sensibilità sociale nei confronti di questo tema, ma anche l’allarme.

Purtroppo sappiamo che le notizie raccontano solo una parte delle storie personali e questo dà spesso adito a pregiudizi basati sulla superficialità dell’informazione, sulla non conoscenza.

Accade che spesso l’argomento violenza venga associato ad eventi di carattere “straordinario”, commessi da parte di sconosciuti, da immigrati o a violenze che hanno come finale la morte della vittima. Si acuiscono convinzioni errate che potrebbero risultare pericolose.

Per violenza si intende ogni abuso di potere e controllo che si manifesta attraverso l’oltraggio fisico, sessuale, psicologico, economico. Esistono varie forme di violenza che possono presentarsi isolatamente, ma spesso coesistono.

L’espressione “violenza contro le donne” invece indica il maltrattamento rivolto verso persone discriminate in base al sesso. Abbiamo a che fare con manifestazioni diverse: dalla violenza psicologica, fisica, sessuale, agli atti persecutori del cosiddetto stalking allo stupro, fino al femicidio (morte).

Attraverso la Convenzione di Istanbul (2011), primo strumento internazionale giuridicamente vincolante “ sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica”, si è finalmente riconosciuta la violenza sulle donne come forma di violazione dei diritti umani.

Si tratta di un fenomeno delicato e complesso, multiforme, grave. Per questo non cercheremo risposte, né soluzioni definitive ma ci porremo delle domande, apriremo questioni. Vorrei provare a riflettere in modo diverso. Non solo sugli eventi eclatanti, sugli accadimenti specifici che vengono portati spesso all’attenzione, ma provando a percorrere un’intera storia, un racconto che si chiama “La casa dalle nuvole dentro” e che inizia così:

“La vita è fatta di un solo cammino, segreti nascosti e bottiglie di vino. Non c’è speranza o perdono che tenga, in attesa che il tuo destino si spenga. Per diventare uomo, oltre che figlio, datti da fare e caccia un coniglio”.

Si tratta di un racconto dentro al romanzo omonimo “La casa dalle nuvole dentro” di Giacomo Grifoni, psicologo e psicoterapeuta, cofondatore di un centro per il trattamento degli uomini maltrattanti. Una narrazione sensibile che può guidarci attraverso alcuni interrogativi in un viaggio profondo di scoperta di questo tema sopra il quale ancora insistono troppi tabù e pregiudizi.

Iniziamo ad aprire degli interrogativi.

PRIMA DOMANDA: chi ha scritto questo racconto? 

Conosciamo subito Andrea, colui che da bambino ha scritto il racconto intitolato “La casa dalle nuvole dentro”. Adesso è adulto, lavoratore pendolare si fa diversi chilometri al giorno in una routine che gli permette di mantenere la famiglia composta da Rebecca, la moglie, e Luca, il figlio.

Ma si tratta di questo? E’ così semplice capire chi è davvero il protagonista di una storia? Possiamo conoscere davvero la sua personalità, la sua identità, la sua storia solo leggendo gli eventi?

Si tratta di domandarsi chi è l’uomo maltrattante. Di chi si tratta, perché agisce così. 

Il racconto nel racconto ci permette di focalizzare l’attenzione non tanto su ciò che accade, come spesso siamo abituati a fare, ma sulla continuità di una storia, di una vita. Andrea è stato un bambino: anche lui ed ha vissuto in una “casa dalle nuvole dentro”.

E’ questo passaggio che ci permette di entrare in uno spazio mentale profondo e iniziamo a vivere davvero l’esperienza di Andrea: i lunghi viaggi in macchina per andare a lavoro diventano un percorso nelle sue paure, nel suo bisogno di stare in movimento, di sentirsi libero, distaccato.

“Non è tanto la nostalgia per le persone. E’ per i luoghi. Per come la luce batte sui muri. Per la forma geometrica della mia città. Ogni sacrosanta città ha il suo modo di illuminarsi, di fare buio o piovere. E io posso provare nostalgia solo per le cose. Con le persone è diverso: le devo monitorare. Se sono al loro posto, me ne potrei dimenticare per sempre”

Ma viaggiare per Andrea significa anche solitudine, centrarsi su di sé, non considerare l’effetto delle sue azioni sulla sua famiglia, minimizzare. E fino a quando è lui in prima persona a guidare il racconto anche noi minimizziamo, ma poi, quando l’autore ci offre nuovi punti di vista siamo costretti a sprofondare nella storia. Andrea non riesce ad avvicinarsi davvero a Rebecca, la controlla. Andrea non può stare in contatto con il figlio, lo spaventa. E ne è geloso.

“Quella notte non riuscii a dormire. Parlare con lui (il figlio Luca) era stato intenso e io scappo da questi momenti. Mi paralizzano. E’ come se un momento intenso fermasse la pellicola del nastro che gira e mi trovassi in un teatro, senza copione, a recitare la parte di me stesso”.

Iniziamo a capire cosa accade nella vita di queste persone. Fino a quando veniamo travolti in un’escalation di violenza che, nella vita reale, sarebbe facilmente liquidato con uno dei tanti titoli di giornale di cui parlavamo, ma questa volta noi non possiamo più farlo. Perché questa volta anche Andrea ha una storia.

SECONDA DOMANDA: dove è ambientato questo racconto?

La narrazione è ambientata a Firenze: è lì che Andrea vive ora, da adulto. Ma è questo che dobbiamo chiederci davvero?

Il racconto, quello che ha iniziato da bambino, quello dove è ambientato? Dove è iniziato? Dove ha avuto inizio la spirale di violenza? 

Conoscere davvero una storia, ci spinge ad andare oltre l’evento grave accaduto ed il luogo in cui si è verificato e quando, consigliato da qualcuno, Andrea inizia un vero viaggio noi lo seguiamo senza riserve. Partiamo per la Calabria, suo paese di origine, ne assaporiamo la cultura, i sapori, la bellezza. Conosciamo una famiglia unita, ma piena di segreti. Scopriamo pagina dopo pagina dove è davvero ambientato il racconto.

Conoscere Andrea ci permette di capire che anche l’uomo maltrattante ha una storia che dobbiamo conoscere per capire davvero certi fenomeni complessi e terribili. Lasciamo quindi i luoghi comuni su raptus momentanei e assaporiamo la vita, la storia di un uomo, di una donna trasformata in vittima e di un bambino. Iniziamo davvero a riflettere su cosa c’è nel profondo di queste realtà terribili, senza giudizio.

La storia di Andrea inizia ad essere un mistero che vorremmo svelare, c’è qualcosa che non sappiamo, qualcosa che neanche lui sa. Cosa ha fatto Andrea a sua moglie? Suo figlio dov’era? Perché? Cosa lo ha spinto ad agire? Perché non parlare? Come ha iniziato a distaccarsi? Come ha scelto questo modo di comportarsi? Cosa è accaduto nella sua casa dalle nuvole dentro? 

Queste domande segnano il percorso dalla semplice curiosità legata alla paura di episodi così gravi al tentativo di capire, segnano il passaggio dal chiedersi cosa al chiedersi perché, andando in profondità.

E’ adesso che ha senso ripensare a qualcosa che Andrea ha scritto all’inizio di tutto, qualcosa che ora stiamo davvero cercando di capire, uno scorcio della mattina dopo la “Notte dei cazzotti dappertutto”:

“La mamma entra in camera mia con la testa piegata. Sembra una marionetta a cui hanno staccato un filo. Parla a voce bassa. -Amore, oggi non vai a scuola-. L’abbraccio e le dico: – Ti voglio bene-. Lei risponde: -Lo so-”.

Entriamo davvero nella “la sua casa dalle nuvole dentro”, in quella famiglia in cui i segreti sono vissuti come tabù di cui non si può parlare, dove non ci sono spiegazioni, non si può comunicare, in cui è possibile assistere alla violenza, vedere la propria madre come una marionetta a cui hanno staccato un filo, dove tutto è ambientato.

TERZA DOMANDA: chi ha davvero scritto allora questo racconto?

Continuando a proseguire la storia, iniziamo a chiederci perché Andrea ha avviato una narrazione così intensa, quella della “casa dalle nuvole dentro” quando era solo un bambino e poi non l’ha più conclusa.

Ci chiediamo quali siano davvero i fattori che concorrono nel generare la violenza. Ed abbiamo quasi paura nel farlo. 

Le sue prime parole, l’incipit del racconto, parlano di un destino, di un percorso già tracciato e quelle parole assumono ora un nuovo senso: la percezione di non poter reagire di un bimbo che non ha avuto elementi per rimaneggiare gli eventi, per elaborare.

Un bambino che assiste alla violenza si sente intrappolato? Avrà gli strumenti per muoversi nel mondo? Assistere in silenzio ad una violenza, senza ricevere spiegazioni né consolazione cosa può creare nella mente di un bambino?

Proviamo a capire.

L’aggressività è un tema molto complesso ma, vorrei provare a proporre degli spunti di riflessione, ad aprire ancora altri interrogativi.

Molti autori si sono addentrati nel tentativo di fornire un modello teorico a quello che accade ad un bambino che viva in un contesto di aggressività e maltrattamento.

Di Blasio (2000) ha definito il maltrattamento psicologico «la reiterazione di pattern comportamentali o modelli relazionali che convogliano sul bambino l’idea che vale poco, […], la presenza di biasimo protratto, isolamento […], minacce verbali, e ancora consentire che il bambino assista alla violenza e ai conflitti tra i genitori o sia spettatore di aggressioni fisiche di un genitore nei confronti dell’altro o dei fratelli».

La teoria dell’Attaccamento di John Bowlby spiega che il bambino è spinto verso la creazione di legami da motivazioni intrinseche, innate. Afferma che la prima motivazione del bambino a legarsi ad un altro è legata alla ricerca di protezione, di calore affettivo.

Attraverso questo legame il bambino avrebbe accesso ad una “regolazione diadica delle emozioni”: la modulazione delle proprie emozioni attraverso l’altro, che contribuisce a mantenere integra l’organizzazione comportamentale e psicologica dell’individuo. Avrebbe inoltre la possibilità di costruire modelli di relazione, dell’altro e di sé che si tradurranno in una sensazione di sicurezza e fiducia.

Queste le parole di alcuni autori riguardo violenza e attaccamento: “La violenza domestica costituisce una fonte particolarmente potente di problemi evolutivi proprio perché la paura del danno in cui può incorrere il genitore porta a un’anticipazione dell’indisponibilità, confermata dall’inaccessibilità della madre durante i momenti di acuto conflitto coniugale” (Fonagy, Target, 2003).

Questo è quello che può accadere nel mondo interno di un bambino come Andrea che vive un episodio di natura traumatica. Molte sono le conseguenze che si legano ai traumi infantili. Se parliamo del legame di attaccamento ciò che accade è che l’esperienza non permette il crearsi di una base sicura, ma genera insicurezza, fragilità. Il bambino avvertirà paura, un’indisponibilità che lo spingerà a non comunicare i propri bisogni, a distaccarsi.

Il principio esplicativo alla base della teoria social cognitiva di Bandura, invece, è il determinismo triadico reciproco, che stabilisce come il funzionamento della persona derivi dalle complesse interazioni che hanno luogo tra tre fattori: l’ambiente fisico e sociale, i sistemi cognitivi e affettivi che costituiscono la persona e il comportamento individuale.


Secondo l’autore gli apprendimenti sono mediati dall’ambiente in cui il bambino cresce. Bandura non ritiene che l’aggressività sia una pulsione innata ma un modo appreso di reagire agli eventi per ottenere ciò che desideriamo in base a come abbiamo imparato a conoscere il mondo sociale.

Ciò che di grave può accadere, ad esempio, è che il bambino sia incentivato a ricorrere all’azione violenta anziché alla comunicazione o a creare categorie mentali di “uomo” e “donna” che si legano ad una cronica disparità di potere.

Scavando nelle storia di Andrea scopriamo aspetti educativi e culturali da considerare. Siamo immersi in una cultura che consente di vedere ancora le donne come il “sesso debole”.

Alla fine di questo viaggio, possiamo quindi considerare l’idea che la violenza è un tema ancora più complesso di quanto si ritiene in generale. Non basta isolare il maltrattante, relegarlo nella condizione di colpevole. Molti sono i piani di azione su cui impegnarsi per intervenire e prevenire le conseguenze di questo grave fenomeno.

Si tratta di aiuti concreti nei confronti delle donne vittime di brutalità, di proteggere loro, i loro figli. Ma anche occuparsi di prevenzione, di focalizzare l’attenzione sulla consapevolezza e sulla conoscenza, sull’educazione alla comunicazione ed al rispetto. Si tratta anche di occuparsi del maltrattante perché farlo significa riscrivere il finale di una storia di violenza e di impedire che quel destino già tracciato non prosegua nella generazioni. E’ questo ciò che accade ad Andrea, ed è tutto questo che la sua storia ci insegna.

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