È da circa cinque mesi che provo a scrivere un articolo in cui spiegare una posizione evolutiva a cui tengo tantissimo.

Si tratta per me di un tema talmente complesso e per certi versi ancora inafferrabile che ogni versione fino ad oggi redatta si è rivelata essere confusa e priva di interesse.

Oggi ci riprovo, nella speranza di averne capito e di riuscire a farne capire qualcosa di più.

Comincerò con il definirvi la protagonista di questo articolo: si tratta della posizione schizo-paranoide, si inscrive nelle teorizzazioni di Melanie Klein, psicoanalista infantile della prima metà del XXesimo secolo, e tradizionalmente fa riferimento a un modo di organizzare il mondo interno, ed esterno, fisiologico nel primo anno e mezzo di vita dell’essere umano.

Secondo questa autrice per il bambino piccolo sarebbe impossibile riuscire a sentire che gli aspetti libidici e quelli aggressivi possano derivare dalla stessa fonte.

Fino a una certa età il piccolo cucciolo di umano scinde quindi le fonti di piacere dalle fonti di dolore, identificando due madri diverse: il cosiddetto seno buono, colui che lo gratifica e lo nutre, e quello cattivo, viceversa frustrante e causa di sentimenti spiacevoli (metaforicamente il seno buono e quello cattivo rappresentano rispettivamente “la mamma buona” e quella “cattiva”).

Il bambino, avendo un bisogno estremo di una mamma buona, sintonizzata e accudente, non può pensare che sia proprio quella stessa mamma a provocare in lui quelle emozioni così brutte che seguono un’assenza di gratificazione.

Pertanto, per poter preservare dentro di sé l’illusione di una mamma tutta buona e perfetta (proprio per fare fronte al suo estremo bisogno di essa), separa, o tecnicamente scinde, nelle sue rappresentazioni psichiche, quella “cattiva” da quella “buona”, idealizzando la madre buona e svalutando quella cattiva.

Queste due figure si alterneranno a seconda del momento e del tipo di esperienza che il bambino sta provando.

Cerchiamo di capire meglio cosa sto cercando di dire. Se per esempio il bambino ha freddo, e la mamma lo avvolge tra le sue braccia in una coperta morbida a calda, lo dondola, sussurrandogli una tenera canzone nell’orecchio, il bambino sarà convinto di trovarsi di fronte alla mamma buona. Sarà sereno, anzi, probabilmente estasiato, i suoi bisogni saranno soddisfatti e lui si sentirà nelle grazie di una creatura divina.

Mettiamo invece che sempre questo stesso bambino stia piangendo. Ha fame. Sta nella culla, ma si è aperta una finestra. Sente freddo. La mamma tarda ad arrivare. Quando arriva, lo tira su, ma dimentica di coprirlo.

Lui continua a piangere, queste sensazioni di fame, freddo, assenza di cambiamento nel suo stato fisiologico sono insopportabili. Questa stessa madre, prima fonte di grazia divina, ora è fonte di dolore, di frustrazione, di primitive sensazioni di spiacevolezza insopportabile.

Tutte queste sensazioni vengono quindi proiettate su di lei, che diventa l’unica, inconfondibile, sorgente di questa bruttezza. Ecco a voi la madre cattiva.

In questo modo Melanie Klein descriveva la posizione schizo-paranoide: semplificando, sosteneva che per il bambino piccolo sia impossibile sentire che l’aggressività e l’amore possano coesistere.

Tuttavia, crescendo, il bambino si rende conto di come in realtà la mamma che lo fa stare bene e quella che lo fa stare male siano la stessa mamma. Questa nuova consapevolezza lo farà entrare nella posizione depressiva.

La posizione depressiva, evolutivamente successiva a quella schizo-paranoide, si caratterizza per la scoperta, e l’accettazione, della coesistenza degli aspetti libidici e di quelli aggressivi, e quindi un avvicinamento alla comprensione della realtà.

Il bambino scopre che la mamma è sempre lei, e che proprio colei che lo coccola e lo nutre è la stessa che lo sgrida e che a volte si dimentica di proteggerlo dal freddo.

Quando raggiunge questa posizione, il bambino è invaso dalla paura che l’aggressività e l’odio da lui provati per quella che era la mamma cattiva possano averla disintegrata, distruggendo al contempo l’oggetto del suo amore (perché oramai sa che la mamma odiata è la stessa che ama).

A un certo punto, però, il bambino scopre che l’aggressività non è distruttiva, che anche se a volte si arrabbia, o se la mamma si arrabbia, l’amore è più forte.

Questo, processo fondamentale, può avvenire solo se il piccolo avrà avuto modo di sperimentare l’aggressività propria e quella materna senza essersi sentito distrutto da essa.

Carichi eccessivi di aggressività in una cornice di scarsa espressione di amore difficilmente portano a una buona tolleranza di essa.

Allo stesso modo, un’assenza di espressione della propria aggressività tanto da non poterla mai comunicare porta anch’essa a una percezione di impossibilità di espressione della stessa, e quindi di intollerabilità.

Io per esempio è da sempre che cerco di evitare l’aggressività. La evito dentro di me, la evito con le persone che amo, la evito intorno a me.

Tante volte non sono stata rispettata, per prima da me stessa, perché non sono stata capace di dire di no, perché ho avuto paura di contraddire e ho temuto il conflitto. Sono cresciuta in una famiglia in cui l’aggressività non è mai stata regolata, in cui il conflitto è sempre rimasto inespresso.

Non si diceva mai di no a niente e a nessuno, sembrava regnasse solo amore e consenso, e la rabbia prendeva sembianze estremamente minacciose, nelle nostre rappresentazioni di esse, e nella realtà. Ogni “no” era sentito come un attacco al legame, veniva quindi prima negato, e poi agito.

Ogni atto aggressivo inespresso, ogni no non detto finiscono sempre da qualche parte, trasformati, potenziati.  Nel mio caso ognuno di essi è stato assorbito dal cibo. Ogni mancanza di comunicazione, di simbolizzazione ed espressione l’ha pagata il mio corpo.

Ho trovato poi alcuni esempi di rapporti in cui ho potuto piano piano sperimentare la possibilità di arrabbiarmi, e di fare arrabbiare, continuando a sentire l’amore. Il mio e quello dell’altro. Ho sentito la possibilità di poter esprimere la mia individualità andando a volte anche contro il desiderio dell’altro senza per questo motivo perderne l’affetto.

Oggi qualche no lo dico, qualche volta mi arrabbio, senza che ciò porti necessariamente a una disregolazione psicologica ed emotiva. Non ce la faccio sempre, a volte ho bisogno di tempo, ma sto scoprendo la possibilità di esprimermi sia negli aspetti di amore e di collettività sia in quelli di diversità e di definizione dei confini, che a volte possono essere percepiti come atti di esclusione, e in quanto tali aggressivi.

Forse, in parte, posso dire di aver contattato la posizione depressiva (per oggi).

Come scrive Aldo Carotenuto[1], la posizione schizo-paranoide infatti non viene mai eliminata del tutto ed è sempre pronta a proiettarsi all’esterno.

Nel prossimo articolo vi racconterò perché secondo me la società di oggi è in un momento in cui stanno proprio avvenendo fortissime proiezioni all’esterno.

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[1] Carotenuto, A. (1981). Il labirinto verticale, p.114.

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