Non c’è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il nostro proprio dolore è così pesante come un dolore che si prova con un altro, verso un altro, al posto di un altro, moltiplicato dall’immaginazione, prolungato in centinaia di echi. (M. Kundera)

Aldilà di ogni divergenza teorica e pratica, la professione psicoterapeutica poggia su un saldo pilastro, che è quello di volersi fare strumento nell’alleviare la sofferenza e offrire aiuto a chi ne ha bisogno e lo richiede. In questo, come in tutte le professioni cosiddette “di aiuto”, una certa vocazione personale gioca un ruolo importante, soprattutto nelle fasi iniziali, di scelta e selezione del proprio percorso di formazione professionale, e di vita.

Negli anni, ci viene insegnato come prestare al meglio questo aiuto, quali sono le tecniche più efficaci e – non da ultimo – a mantenere un atteggiamento empatico e compassionevole verso i clienti: l’ascolto emotivo rimane il punto saldo su cui ogni psicoterapia si impernia.

Eppure, l’elevato grado di coinvolgimento emotivo richiesto da una relazione terapeutica può, non di rado, mettere a dura prova il terapeuta stesso, che è continuamente esposto alla sofferenza – spesso cronica, spesso di matrice traumatica – dell’altro.

Compassion fatigue [affaticamento da compassione, in una pessima traduzione all’italiano] è il termine che è stato impiegato per definire uno stato di tensione e preoccupazione, caratterizzato da una sintomatologia che ricorda quella del Disturbo Post-traumatico da Stress (evitamento, confusione, intrusioni) e che può manifestarsi in chi è frequentemente o stabilmente esposto alla sofferenza e al racconto delle altrui esperienze traumatiche (Figley, 2002). Inutile sottolineare quanto il rischio di incorrere in questa condizione possa essere alto per uno psicoterapeuta.

L’etichetta diagnostica corrispondente è quella di Secondary Traumatic Stress a sottolineare come non soltanto l’esposizione diretta ad un trauma, ma anche il suo riecheggiare nella mente di chi lo ascolta con atteggiamento compassionevole può determinare disagio [ibidem].

Ma facciamo un passo indietro. Se la compassione ci espone ad un tale rischio, perché coltivarla in psicoterapia? Perché non adottare sempre un analitico e funzionale distacco e limitarsi a osservare il paziente attraverso le lenti della diagnosi?

La risposta potrebbe risiedere nella natura stessa della pratica psicoterapeutica, che definisce un rapporto, connotato da reciproca fiducia e con l’intento dichiarato del terapeuta di voler prestare aiuto al paziente.

Infatti, se il termine compassione è andato, nel tempo, incontro ad un’accezione negativa – di pietà o biasimo – non così è accaduto per il suo reale significato e per il suo profondo contenuto umanistico: cum-patior [lat.]insieme, soffro.

Viene da chiedersi da dove può nascere il desiderio e la volontà di aiutare il prossimo, se non da un senso di comunione umana e unità – se non dalla compassione. Laddove la sofferenza dell’altro rimane altro-da-me, è difficile pensare a qualsiasi spinta altruistica e a qualsiasi volontà di dedicare il proprio tempo al prossimo.

Dunque, la compassione risulta una dichiarazione d’intenti e una componente insita in qualsiasi relazione [basata sulla volontà] di aiuto. Mantenendo le distanze dal mero compatimento, è ciò che permette al cliente di farsi aiutare e – spesso – di cercare l’aiuto necessario.

E quindi come tutelare la persona-terapeuta dalla Compassion Fatigue ? Qual è il “giusto mezzo” tra il fare bene il proprio lavoro e non fare del male a sé stessi?

Figley (2002) individua due strategie di coping, utili per evitare la CF: il distacco e il senso di realizzazione personale.

Il distacco definisce la necessità e capacità di compiere uno sforzo consapevole di distanziamento dai pensieri, sentimenti e ricordi che la relazione con il paziente ha elicitato, nel passaggio tra un incontro e l’altro. E’ la presa di coscienza del bisogno di prendersi cura di sé stessi e recuperare le proprie energie emotive, al fine di svolgere al meglio il proprio lavoro nelle sue fasi seguenti, nell’interesse proprio e del cliente.

Il senso di realizzazione personale è legato, invece, al grado di soddisfazione del terapeuta rispetto al lavoro svolto e ai risultati ottenuti, che gli permette di riconoscere la reciprocità di una relazione in cui le parti sono – per definizione – sempre due, e così divise sono anche le responsabilità per la buona riuscita della terapia; significa anche saper rinunciare alla pretesa (talvolta egoistica) di voler alleviare la sofferenza altrui da soli.

Mantenere un atteggiamento positivo verso i propri clienti e verso il proprio lavoro è uno degli elementi che anche la psicologia positiva ritiene indispensabile per rigenerare le risorse emotive che potrebbero andare incontro ad esaurimento nell’esperienza di ascolto empatico e restituire, di volta in volta, il significato di cui rivestire il proprio operato  (Radey e Figley, 2007).

Ad ogni modo, la regola aurea di ogni psicoterapeuta sembrerebbe questa: fai a te stesso ciò che vorresti fare agli altri (ribaltando un noto monito cristiano).

In termini psicologici, questo si traduce nella pratica della self-compassion, che consta di tre componenti: gentilezza vs. atteggiamento giudicante, umanità condivisa vs. isolamento, mindfulness vs. eccessiva focalizzazione sul sé (Neff e Knox, 2017).

Il termine è mutuato dagli approcci alla mindfulness e numerosi sono i training oggi disponibili per migliorare la propria self-compassion; i risultati mostrano miglioramenti a carico di autostima, relazioni, motivazione lavorativa, riduzione di ansia e depressione e aumento della resilienza (ibidem).

Si tratta di creare un circolo virtuoso, capace di alimentare la compassione, l’altruismo e il senso di connessione con l’altro ed evitare il decorso infausto della Compassion Fatigue: esaurire tutte le proprie risorse emotive, senza essere in grado di rigenerarle.

E’ fondamentale, insomma, trasformare la compassione in una risorsa per la crescita e la presa in carico di sé stessi e degli altri.

Con le parole del Dalai Lama: Se vuoi che gli altri siano felici, pratica la compassione. Se vuoi essere felice tu, pratica la compassione.

 

Bibliografia

  • R. Figley, 2002 – Compassion Fatigue: Psychoterapists’ chronic lack of self-care – Psychoterapy in practice, vol. 58 (11)
  • Radey & C.R. Figley, 2007 – The social psychology of compassion – Clinical social work Journal, vol. 35
  • D. Neff & M.C. Knox, 2017 – Self compassion – Encyclopedia of Personality and Individual Differences
  • Sprang, J.J. Clark & A. Whitt-Woosley, 2007 – Compassion fatigue, compassion satisfaction, and burnout: factors impacting a professional’s quality of life – Journal of Loss and Trauma, vol. 12

 

 

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