La domanda è evidentemente provocatoria ma è importante porla perché fornisce l’occasione di discutere quali passi sono necessari per risolvere realmente un problema di dipendenza da cocaina.

È frequente, infatti, quando si discute la richiesta di cure da parte di un paziente con problemi di dipendenza, sentirsi rispondere che:

“l’astinenza è sufficiente, sono stato sei mesi senza usarla e sono stato benissimo… Me l’ero proprio dimenticata non l’ho mai cercata…”

“Perché allora è tornato ad usarla…?”

E la risposta in genere è una scarna semplificazione:

“Me l’hanno offerta, non sono andato a cercarla, l’ho fatto perché ho pensato che dopo tanto tempo non fosse più un problema, una volta poteva andare…”

“…E poi…?”

“Poi è successo un altro paio di volte a distanza di una settimana, mi sentivo sicuro…e alla fine un sabato ho esagerato, sono andato avanti per un mese, più o meno, ed eccomi qua… ma ora voglio smettere sul serio…”

Solo smettere…?

“… E cos’altro c’è da fare…?”

Dunque smettere, smettere tante volte… ed ogni volta non rendersi conto che la ricaduta non è un evento casuale ma è preordinata da comportamenti apparentemente innocenti.

È necessario approfondire in che cosa è consistito lo stato di benessere annunciato dal paziente. Spesso è legato ad un allontanamento dai luoghi familiari, una sorta di vacanza. In altri casi la speranza che sia sufficiente l’astinenza induce il paziente a fare un reale sforzo, per mantenere lo stato di sobrietà ma, contemporaneamente, viene negato quanto era stato affidato a quella sostanza in termini di rimedio alla noia, ricerca di un facile divertimento, soluzione di uno stato di inerzia ed apatia, sensazione di lucidità e sicurezza, allontanamento dei pensieri…

Dove sono finiti questi bisogni per i quali il paziente ha spesso rischiato tanto?

Sono temporaneamente negati e questa negazione prepara il loro prepotente risveglio.
I pazienti infatti ricordano bene cosa hanno cercato ed ottenuto dalla droga:

Una sensazione, qualunque essa sia, soggettivamente molto piacevole.

Ed è questa alla base del desiderio.

Qualche paziente obietterà che non è vero:

“Ormai lo facevo per abitudine, per non stare male ma non provavo più niente…”

Èvero, ma in questo caso non si tiene conto di quanto sia importante, al di là degli effetti della sostanza, avere qualcosa da cercare, da anelare in assenza di altri aneliti. Anche da un punto di vista neuroanatomico, il craving è sostenuto dall’attivazione di alcuni percorsi neuronali che sottendono ai comportamenti di ricerca ambientale. Questo è ciò che cova sotto la cenere della sola astinenza: desideri pronti a reclamare soddisfazione.

A sostenere un periodo di sobrietà ci sono anche altri supporti e vantaggi. Il recupero di abitudini di vita regolari rasserena l’ambiente famigliare e dopo tanti conflitti e sotterfugi il paziente trae soddisfazione dalla rinnovata benevolenza nei suoi confronti: padri e madri che recuperano il sorriso, mogli che si riavvicinano, la ripresa delle funzioni genitoriali.Ciò restituisce sentimenti di autostima e normalità.

Ma il demone non transita in superficie, come certi piccoli velenosissimi serpenti sta ben nascosto sotto un sasso, pronto a colpirti implacabilmente se tu lo smuovi.

È un demone astuto quello che pilota la ricaduta, non si presenta come una minaccia, è ben mimetizzato. Gli stimoli che inducono alla ricerca di droga, che generano la “tentazione” sono all’apparenza neutri: un odore, un profumo, una musica, una certa zona della città, ed il loro potere è dovuto al fatto di essere associati, nella memoria, all’azione di cercare e far uso di droga.

È perciò importante nell’organizzare la prevenzione della ricaduta riuscire a costruire una mappa di questi stimoli attraverso un puntiglioso lavoro esplorativo che necessita di una onesta collaborazione del paziente.

Questo tipo di esplorazione permette, al contempo, di indagare la motivazione alle cure espressa dal tipo di atteggiamento psicologico con cui il paziente affronta le cure stesse. Per esempio, molti pazienti interpretano le cure come un pegno da pagare ai famigliari e ciò è reso evidente da alcuni comportamenti:

la terapia viene messa ai margini della vita del paziente che pone in primo piano altri impegni che, in precedenza trascurati, ora diventano improvvisamente importanti;
– quanto il paziente è disposto a fare per risolvere il suo problema è proporzionale al suo desiderio di cure, perciò se la terapia che il paziente è disposto a fare è risultato di un negoziato, teso a ridurre il suo impegno, con genitori, coniugi e curanti, la motivazione si dimostra scarsa e scarso sarà il risultato;
ogni terapia ha delle condizioni da rispettare da parte del paziente affinché il suo funzionamento sia reso possibile. Se il paziente non rispetta una o più condizioni è in atto un sabotaggio della terapia che non porterà ad alcun risultato;
è importante, infine, il tipo di atteggiamento con cui il paziente valuta le situazioni a rischio. Se queste vengono minimizzate, evidentemente il paziente non ha preoccupazioni significative circa il suo problema, rivelando indirettamente una falla nella motivazione alle cure.

Questi quattro punti costituiscono, insieme, la chiave di ogni cura. Per tale motivo il lavoro su di essi rappresenta la premessa imprescindibile, la fase preliminare irrinunciabile. È un intervento sulla cornice terapeutica preliminare senza la quale la cura non funziona.

Questi punti non possono essere lasciati in sospeso. È vero, trattarli genera conflitti ma, se non li si affronta sin dall’inizio, è come seminare il progetto terapeutico di conflitti che scoppieranno comunque, quando la motivazione alle cure dovesse essere messa alla prova.

Ciò accade in continuazione nel corso di un trattamento e, se non sono stati allestiti comportamenti preordinati per difendere la cura, la cura fallisce.

Si potrebbe dire che, una volta risolta la fase della “cornice”, una buona metà del lavoro terapeutico è stata compiuta ed il resto della terapia scorre liscio.

Una genuina preoccupazione del paziente circa la sua dipendenza e le sue cure ne rappresenta il segnale inconfondibile. È facile intuire la portata di questo cambiamento. Per anni chi è stato vicino a questi pazienti, amici, coniugi, genitori ha avuto il peso di questa preoccupazione a fronte dell’irresponsabilità del paziente.

La preoccupazione del paziente per le sue cure, per il risultato delle sue cure è il primo segnale di sollievo. Ripeto, senza la preoccupazione personale del paziente la terapia non procede ed è a questo segnale che si deve fare attenzione per capire se il trattamento potrà avere successo.

 

 

 

 

 

CONDIVIDI
Articolo precedenteScegliere l’orientamento terapeutico: per psicologi e pazienti
Articolo successivoTrattare la depressione maggiore e moderata
Furio Ravera
Laureato in Medicina e Chirurgia all'Università di Milano, ha conseguito la specializzazione in Neuropsichiatria Infantile. Dal 1980 è psichiatra presso la Casa di Cura Le Betulle dove è direttore dei reparti "Abuso e Dipendenze da Sostanze Stupefacenti e Farmaci" e "Disturbi di Personalità e Disturbi Psicotici". Ha completato il 1° Corso MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) e il Corso di 1° e 2° Livello EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) per il trattamento dei traumi. Insieme a Roberto Bertolli ha fondato le Comunità Terapeutiche Crest, la Società di Studio per i Disturbi di Personalità (SdP), la Comunità Terapeutica Cima di Milano e il Centro Terapeutico La Ginestra di Milano. Ha prestato numerose consulenze presso Sert, Casa di Cura Villa del Principe, Casa di Cura Villa dei Pini. Già Professore a contratto presso la Scuola di Psicologia Clinica dell'Università di Milano Bicocca, tra le numerose pubblicazioni annovera "Un fiume di cocaina" e "Le regole e la manutenzione della Vespa".

ADESSO COSA PENSI?