In un articolo che ho recentemente letto (per approfondire leggere qui), si descriveva la depressione come uno stato potenzialmente adattivo. Se effettivamente la depressione può assumere un carattere evolutivo e transitorio, c’è da dire che nella sua cronicità essa rischia di sottendere alcune manifestazioni psicopatologiche anche piuttosto gravi.

È il caso dei disturbi alimentari, per esempio, o dell’abuso di sostanze, situazioni in cui la dipendenza (dal cibo, dal vomito, dall’alcool, dalla droga leggera e pesante, dal gioco d’azzardo, dal sesso, o dalle persone stesse) è una forma di auto-medicazione che permette di non prendere i contatti con i vissuti depressivi sottostanti.

In questi casi per esempio, l’auto-medicazione ha delle radici così profonde e automatiche che è difficile sradicarla senza avvalersi di una sostanza alternativa. È in questo contesto che i farmaci trovano una loro utile applicazione.

Ma andiamo a vedere i meccanismi neurobiologici sottostanti più da vicino…

Gli SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors) sono dei farmaci volti a impedire il riassorbimento della serotonina, neurotrasmettitore responsabile del buon umore.

Il sistema serotoninergico è implicato nelle disregolazioni dell’umore e degli affetti. Una delle evidenze più esplicite di questa associazione è l’efficacia clinica degli inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina (ovvero degli antidepressivi) nel trattamento di un ampio spettro di disturbi dell’umore: dagli stati depressivi a quelli ansiosi (Nemeroff, 1998).

Un fenomeno interessante e importante da evidenziare è infatti quello dell’elevato tasso di comorbilità tra depressione clinica e dipendenza da sostanze. Questa comorbilità potrebbe riflettere un substrato neurobiologico comune per i due disturbi.

Anche in letteratura è stata formulata l’ipotesi dell’auto-medicazione della dipendenza, secondo cui un disturbo depressivo sottostante rende i soggetti vulnerabili agli effetti delle droghe. Questi soggetti cercano e poi diventano dipendenti da droghe o da comportamenti in modo tale da “trattare” o da modificare le anormalità neurobiologiche soggiacenti i loro stati depressivi (Markou et a., 1998).

Molte delle droghe sintetiche che oggi vengono consumate hanno come obiettivo proprio il sistema della serotonina o della dopamina: l’MDMA e l’ecstasy, ad esempio, provocano un maggiore rilascio di serotonina, mentre l’eroina e gli oppiacei stimolano l’attività della dopamina nel sistema cerebrale dedicato alla regolazione emotiva (il sistema limbico).

In generale, le sindromi da dipendenza, comportamentali e da sostanze psicoattive, sembrerebbero essere sottese da un comune processo derivante dall’alterato funzionamento di alcuni sistemi neurologici e funzionali e di livelli atipici di neurotrasmettitori necessari per il buon funzionamento di decine di circuiti all’interno del nostro cervello:

  • Il sistema della “motivazione-gratificazione” (con conseguente cristallizzazione di meccanismi di rinforzo negativo),
  • Il sistema della “regolazione degli affetti” (con comparsa di progressiva incapacità di tollerare emozioni dolorose, che vengono ‘curate’ tramite il comportamento) e;
  • Il sistema dell‘”inibizione comportamentale” (con incapacità di interrompere l’esecuzione di un comportamento chiaramente infruttuoso e autodistruttivo).

Inoltre, i dati a nostra disposizione suggeriscono che i recettori della serotonina svolgono un ruolo importante nella mediazione delle azioni impulsive. La ricerca ha mostrato che l’attività di questi recettori potrebbe prevenire le ricadute dopo l’astinenza, e potrebbe anche decrescere l’ammontare dell’uso di sostanze.

In quest’ottica sembra chiaro che la depressione in alcuni casi possa portare a comportamenti compensatori cronici anche piuttosto pericolosi e dannosi per la salute. Gli antidepressivi possono essere quindi degli utili alleati di un percorso psicoterapeutico approfondito volto a risalire alle cause di tali comportamenti che permettono di evitare dolori vissuti sottostanti.

In linea con le più recenti scoperte neuroscientifiche sul trauma (inteso nella sua accezione più ampia e sottile), una combinazione di psicoterapia e di psicofarmaci permette di agire in una duplice direzione terapeutica: top-down, quindi di comprendere attraverso il pensiero gli stati emotivi tumultuosi sottostanti, e bottom-up, ovvero attraverso una modulazione delle attività disregolate cerebrali.

Questa combo permette al terapeuta e al paziente di lavorare insieme in uno stato di maggiore calma e lucidità, permette al paziente di condurre una vita sollevato dal peso dell’angoscia profonda e di poter fruire in maniera più proficua delle proprietà curative del proprio pensiero e della propria relazione con il terapeuta, andando in profondità, nei meandri delle proprie rappresentazioni interne e delle proprie ferite.

Vorrei chiarire che gli antidepressivi in linea di massima non curano la depressione, sia essa clinica e sintomatica, o sia essa soggiacente stati di dipendenze più complesse. Gli antidepressivi permettono di facilitare il percorso e di migliorare nel frattempo, almeno di un po’, lo stato di salute e di benessere della persona mentre li assume, riducendo il ricorso a processi di auto-medicazione incontrollati.

Il lavoro terapeutico non è esente da complicazioni e da affaticamenti emotivi, cognitivi, ed economici. In questo senso avere una mano farmacologica può essere utile. Sfortunatamente, (e per fortuna), la depressione non è solo dovuta a bassi livelli di serotonina o dopamina, e quindi il problema non si risolve solamente aumentando il livello di tali neurotrasmettitori. Tuttavia, agire in tal senso può far parte della soluzione, o quantomeno agevolare la ricerca di una che sia più duratura e giusta per sé.

 

Bibliografia:

Marazziti, D., Presta, S., Picchetti, M., & Dell’Osso, L. (2015). Dipendenze senza sostanza: aspetti clinici e terapeutici. Journal of Psychopathology21, 72-84.

Markou, A., Kosten, T. R., & Koob, G. F. (1998). Neurobiological similarities in depression and drug dependence: a self-medication hypothesis. Neuropsychopharmacology18(3), 135.

Owen, J. R., & Nemeroff, C. B. (1998). New antidepressants and the cytochrome P450 system: focus on venlafaxine, nefazodone, and mirtazapine. Depression and anxiety7(S1), 24-32.

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