…Lei non sa dottore quanta solitudine e quanta vergogna si prova con la testa piegata sul water per vomitare. Nessuna sa o finge di non sapere.  

È un momento di immensa solitudine, concentrato sul rifiuto di tutto, mentre i polmoni bruciano insieme all’esofago e la gola sembra strangolarti per l’innaturalezza del gesto.  

Mi sono riempita di cibo perché il vuoto era insopportabile. Mentre mangiavo ero come in trance, un animale primitivo che morde e ingoia, soprattutto ingoia, mette dentro, sente che il vuoto si riempie, sente che è troppo, sente che è immondo e si fa strada un senso di sporco, di peccato e di vergogna.  

Non serve più nemmeno sollecitare la gola con le dita. Basta piegarsi e aprire la gola come in un grido muto ed ecco il suono osceno del rigurgito, la voce sgangherata del rifiuto, se il diavolo ha una voce quello dev’essere il suo timbro. 

Poi ti risollevi dalla tua oscenità tutto è tornato come prima, prima di mangiare, prima di sporcarsi, prima del vomito. Il tempo si è riavvolto all’indietro. Tutto è come prima tranne la vergogna che il segreto segnala e nasconde. 

Ho una mappa mentale di tutti i bagni di Milano. Organizzo i miei incontri, gli aperitivi su questo schema

Anche di questo mi vergogno. I bagni devono essere ben nascosti, nessuno nelle vicinanze. I migliori sono i bar ed i ristoranti che hanno il bagno lontano, nel sottoscala. Ho sempre paura che mi sentano. Ho sempre vergogna, ho sempre bisogno del segreto e di luoghi segreti. 

Nel bagno ci deve essere un lavandino perché quando tutto è finito devo sciacquarmi bene. Mi lavo sempre i denti.  Nelle mie borse non manca mai uno spazzolino da viaggio, quello che si monta ed ha un piccolo dentifricio nell’involucro. Ho paura che si senta l’odore del vomito, non mi avvicino troppo. 

Non posso usare le mentine. Non sopporto nemmeno una caramella, inquinerebbe il senso di pulizia e di perfezione che ho ottenuto con il vomito. Se mangio una caramella devo riprendere a mangiare per riempirmi fino ad espellere di nuovo tutto, insieme alla caramella. 

Nego e nascondo a me stessa questa topografia segreta dei bagni che condiziona i miei spostamenti.

Perciò non amo i luoghi nuovi che non ho potuto esplorare. Se sono proprio costretta appena arrivo vado in bagno. Valuto se mi posso permettere di vomitare in sicurezza. Solo allora mi posso permettere l’aperitivo con tutti gli stuzzichini di cui abuso e poi via a vomitare. 

A casa è diverso. Mi approvvigiono in luoghi diversi. Ho bisogno che la casa sia piena di cibo. Le mie orge sono senza limiti, mangio fino a scoppiare e poi mi libero con il vomito. Tutto torna come prima. 

Non so più che sapore hanno i cibi. Sono corpi che sbrano. Sono come grossi gomitoli di stoppa che servono per occupare spazio. Non è fame né golosità. È riempimento. È lotta contro il vuoto. Il vuoto non è fame. È ineffabile. 

La parola vuoto è abbastanza simile a ciò che si prova. È come il freddo senza freddo, solitudine accompagnata dall’impulso al ritiro nel convincimento che nessuno può soddisfare questo bisogno. È vuoto e desiderio di vuoto perché ciò che lo potrebbe riempire è una mela avvelenata. 

Nasce così il primo equivoco che porta nella direzione di ingozzarsi. Una erronea percezione del vuoto seguita da un erroneo rimedio. Il riempimento si fa osceno e sporco. C’è la sensazione di essere contaminati e corrotti. Non ė solo paura di ingrassare. Anche questo è un equivoco. 

La paura di ingrassare è il simbolo di una trasformazione indesiderata e temuta. È troppa la paura di ingrassare e viene vissuta come se dovesse accadere in un’istante, proprio come in un avvelenamento. Ecco perché occorre liberarsi subito di ciò che si è ingurgitato

Questa testimonianza è sovrapponibile ad altre raccolte quando le pazienti sono diventate più consapevoli del significato simbolico del loro comportamento alimentare.

Nel lavoro esplorativo emergevano intensi bisogni di dipendenza, il vuoto lasciato da una dipendenza che avrebbe dovuto essere fisiologica, nel corso della crescita, e che non è mai stata efficace. Emergeva il racconto di relazioni con madri incapaci di riconoscere e soddisfare i bisogni delle figlie sempre anelanti un supporto.

Si potrebbe dire, per avvicinarsi meglio al tema che stiamo trattando, che si trattava di madri incapaci di mettere “dentro” qualcosa di buono, di “nutrire” adeguatamente.

L’atto di “nutrire” si svolge a vari livelli.

Gli esperimenti sull’attaccamento ci hanno dimostrato che le piccole scimmie preferiscono una scimmia di peluche ad una scimmia di filo di ferro con un dispositivo che somministra latte. Dunque, meglio il contatto che il cibo e allora forse il cibo che è mancato è proprio il contatto, prima con l’abbraccio e poi con le parole. Quelle parole che vanno dentro, rimangono dentro e confortano.

Infatti, l’esplorazione delle esperienze di attaccamento ci mostra attaccamenti insicuri fino al tipo caotico, in funzione della complessità delle vicissitudini. Se non si è stati ascoltati nella espressione dei nostri bisogni non solo è mancata la corretta soddisfazione ma, soprattutto, è mancata la possibilità di dare un significato chiaro al bisogno ed al suo legame con le forme più efficaci di soddisfazione.

Quando i bisogni riguardano gli affetti, il contatto, la disponibilità, la sicurezza, la facile reperibilità della figura materna o comunque del caretaker, è difficile che ricevano una definizione chiara. Quando le parole, il nome non è disponibile si ricorre ai simboli, come quando si cerca di farci capire da qualcuno che non parla la nostra lingua. Si fanno gesti, si mima ciò di cui abbiamo bisogno.

Ma come si mima la solitudine, la delusione, la sensazione di essere incompresi? Occorre trasformare queste sensazioni ad un livello inferiore, più primitivo. Il cibo, la bocca e lo stomaco si prestano con facilità a costruire metafore.

La femmina dei mammiferi ha addirittura una parte di sé che produce cibo ed è cibo. In molte lingue la parola “mamma” viene pronunciata con suoni analoghi (mom, maman, etc) e il movimento delle labbra è simile al poppare.

Il cibo si presenta bene come simbolo materno e le vicissitudini intorno al cibo raccontano le vicissitudini con la rappresentazione della madre.

La grande ambivalenza cui si assiste nel mangiare e vomitare, ci dice che la madre è al contempo desiderata è rifiutata. La si desidera come oggetto interno ma al contempo è insopportabile. Pensare tutto il giorno al cibo ed all’allettante abbuffata è come pensare tutto il giorno alla madre e volerla divorare per riempirsi di lei di tutto quello che vorremmo ci desse.

La sfida terapeutica è rappresentata dalla difficoltà di decodificare bisogni la cui espressione è extraverbale ed incastonata nel corpo che li mima. Occorre molta pazienza e perseveranza perché ciò che si è trasformato in comportamento resiste alle parole ed alla astrazione simbolica ma è un percorso irrinunciabile.

Dalla testimonianza che abbiamo riportato non va trascurata l’esperienza della vergogna che ostacola sia la ricerca di cure che il lavoro terapeutico per reticenze e mezze verità.

Sicuramente le bulimiche si vergognano (a torto perché è una grande sofferenza) di ciò che fanno, del loro comportamento, ma la vergogna riguarda anche i bisogni vissuti come un difetto, una mancanza. Si vergognano di rifiutare ciò che rifiutano con il vomito e su questo aspetto vanno molto sostenute. C’è nel loro rifiuto un’intenzione salvifica messa in atto nel peggiore dei modi.

 

 

 

 

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