Premessa: giovane psicologo lo sono anche io. In questa rubrica vi racconterò fatti, riflessioni e possibili consigli pratici nati nei miei primi anni di pratica clinica.

“Avvertivo soprattutto la necessità di assumere un nuovo atteggiamento verso i miei pazienti. Risolsi, per il momento, di non fondarmi su presupposti teorici, ma di stare a sentire ciò che mi avrebbero detto essi stessi. Mi proposi così di affidarmi alla sorte”

C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni 

L. è un ragazzo di 26 anni, commesso in un negozio di elettronica, lo vedo a causa di una serie di attacchi di panico abbastanza violenti che l’hanno colpito negli ultimi mesi. Dopo un attacco avuto in auto non riesce più a guidare.

Ultimamente è un tema che torna spesso e L. mi racconta con un misto di rabbia e disperazione i suoi tentativi di sedersi alla guida, le sensazioni di oppressione e soffocamento che prova, il pianto che quasi sempre sopraggiunge.

Oggi mi chiede di aiutarlo: esplicitamente con frasi che arrivano ad essere delle suppliche, implicitamente con l’atmosfera di disperazione e frustrazione che viene a crearsi nella stanza.

Cerco di allargare il campo: rivediamo insieme l’episodio dell’attacco alla guida, i pensieri che aveva in mente prima di entrare in macchina e prima di star male, i fatti successi nei giorni precedenti, l’atmosfera psichica di quel periodo.

Provo a creare connessioni fra i temi che emergono con episodi, temi e racconti emersi in altre sedute. Tento di attivare nuove possibilità di rappresentare e dare senso. Sento che devo innanzitutto uscire da quella macchina, permettergli di andare oltre al problema della guida per poi magari tornarci dopo aver preso fiato.

Per lui però è importante capirci qualcosa e iniziare a risolvere il tutto e guidare nuovamente: la macchina gli serve per andare a lavoro, sono mesi che va con il bus, si sente “un disabile”.

Lo seguo, cercando di immaginare un aiuto da dargli, un pensiero, una connessione, qualcosa che possa fargli pensare una volta chiusa la porta dello studio che è stato utile venire da me, parlarne con il dottore.

Ricominciamo a girare intorno ai temi guida, controllo, ansia, lavoro. Io sono sempre più frustrato, lui sempre più agitato. Mi sento inutile, non so come aiutarlo a tirarsi fuori dalle sue sensazioni “da disabile”.

Cerco di sostenerlo nel rassegnarsi, almeno per un breve periodo, forse le risposte non arriveranno oggi, forse serve ancora tempo. Spero che passando attraverso una piccola rassegnazione si possa aprire un varco, possa uscire dalla trappola e possa ricominciare a pensare, o almeno possa permettere a me di farlo.

Contemporaneamente però mi sento fallire. Arrivo ad essere sfinito. Troppo concentrato sulla soluzione, stanco e frustrato. A quel punto, in un moto di rabbia e disperazione, getto la spugna. Penso: “non ce la faccio così, al massimo perderò il paziente, non risolverà nulla ed andrà da qualcun altro”.

Lo lascio andare, non mi concentro più sulla sua richiesta che pare irrisolvibile. Semplicemente lo seguo, lo guardo, ascolto e mi lascio condurre. Continua a girare in tondo, come se la spirale continuasse a chiudersi. Non so davvero cosa fare, ma non posso fare nulla in questo momento per lui che non sia stare li e fargli sentire la mia presenza calda, sincera, priva però della prestazione che mi chiede e che io pensavo di potergli dare.

Col tempo però arriva ad un punto di rottura, penso di averlo definitivamente perso, non l’ho aiutato. Il cerchio però si allarga, scoppia a piangere ed emerge un nuovo tema, molto più vasto e profondo, riguarda il rapporto con i suoi genitori, il fatto che sempre gli abbiano consigliato cosa fare in ogni situazione senza dargli la possibilità di sfogarsi e basta.

Ogni volta che portava loro un problema gli dicevano “fai questo, fai quello”, ma non ascoltavano la sua sofferenza, la cacciavano offrendogli delle soluzioni concrete che poi inevitabilmente non funzionavano, anzi lo facevano sentire un incapace, nuovamente un disabile.

Lo spazio della stanza e delle nostre menti finalmente si allarga, emergono connessioni, possiamo pensare insieme. Piange ma non si sente soffocato, può piangere e basta, senza qualcuno che lo spinga ad agire per risolvere ed andare immediatamente oltre. È un pianto diverso, non più frustrato e rabbioso, ma molto più profondo, quasi di sollievo, come di chi può fidarsi e mostrarsi senza l’angoscia della riuscita del compito.

Sta finendo la seduta, non parliamo più della guida, ma di lui, di come si sente ora, come si è sentito con me e si sentiva in tutte quelle situazioni passate. È la stessa cosa che avrei desiderato fare ad inizio seduta, ma ogni mio tentativo risultava forzato, non veniva ascoltato da L.

È soddisfatto e anche io lo sono. Ha pensato, ha ricominciato a pensare, nuove connessioni sono nate e nuova aria è entrata nel nostro rapporto che stava divenendo sterile. Penso che non avrà risolto il problema della guida in modo diretto, come furiosamente mi chiedeva, ma attraverso una strada nuova avrà iniziato a scioglierlo.

Forse non si parlava solo di problemi alla guida, ma di fiducia nella capacità di reggere la sua sofferenza senza espellerlo facendolo sentire ancora più inutile ed incapace.

Questa seduta, e diversi altri episodi avvenuti in studio mi hanno insegnato come sia sempre il flusso profondo della seduta a dirigerne l’andamento complessivo. È un flusso a cui regolarmente dobbiamo arrenderci. Vi sono diverse situazioni in cui questa dinamica è abbastanza evidente, mentre in altre è più insidiosa.

In quella che vi ho illustrato, il paziente ci porta con sé nella sua angoscia più immediata e bruciante. Lentamente finiamo in trappola, concentrati e pronti, ma assolutamente disarmati di fronte a quello che succede. La richiesta del paziente è lecita, naturale e noi sentiamo di dover rispondere, ma non riusciamo a mettere in moto quello scarto che permette alla nostra – e di conseguenza alla sua – mente di pensare.

La paura di non essere efficaci, di sentirsi persi ed incapaci come si sente il paziente ci rapisce, accecandoci. In quei casi spesso è utile un piccolo atto di coraggio e fiducia, che ci permetta di arrenderci al fluire della seduta e semplicemente stare lì, in modo caldo ed umano, essere presenti e ricettivi, non più però ingaggiati nella perversa ricerca della soluzione immediata.

Dobbiamo uscire ed entrare dal cerchio di richieste del paziente, tenere sempre un piede dentro ed uno fuori, come a guardare sia ciò che succede dentro sia il paesaggio esterno, i fatti immediati ed i movimenti più profondi che stanno avvenendo.

Benché questo sulla carta sia ovvio e piuttosto semplice da immaginare nella realtà non lo è, perché sopraggiungono tutta una serie di emozioni che rallentano il pensiero, lo inceppano, ci avvicinano all’angoscia del paziente stordendoci, fino a gettarci nel suo stesso buco.

Passare attraverso queste fasi è molto diverso rispetto al sapere teoricamente cosa andrebbe fatto. Avere in mente che queste dinamiche succedono e soprattutto come succedono può però essere una bussola che ci orienta nella tempesta in corso, che ci da un punto di riferimento terzo e più o meno stabile. Permettendoci così accettare un paradosso:

a volte proprio nel momento in cui ci arrendiamo stiamo iniziando ad aiutare il paziente.

 

 

2 COMMENTI

  1. Mi sorge un dubbio però. Perché non inviare il paziente con gli attacchi di panico a un terapista cognitivo-comportamentale? Perchè le ricerche dicono che la Terapia Cognitivo Comportamentale è l’intervento che ha fornito la maggiore dimostrazione di efficacia nel trattamento dei disturbi d’ansia e, in particolar modo, del disturbo da attacchi di panico.
    L’efficacia clinica della Terapia Cognitivo Comportamentale è confermata dalle alte percentuali di risoluzione (superiori anche alla farmacoterapia) e rappresenta un fattore protettivo per le ricadute a lungo termine.
    O almeno, perché non fare almeno al paziente una psicoeducazione sugli attacchi di panico?

    • Risposta dell’autore:

      Gentile Valentina,
      cercherò di non entrare nella dispute sull’efficacia delle diverse teorie: è un ginepraio da cui raramente si esce indenni. Si trovano ricerche su ricerche in cui ognuno – in modo deliberato o meno – tenta di dimostrare l’efficacia di una teoria a discapito di un’altra. Rimarrò quindi in linea con l’idea della rubrica, ossia il raccontare la mia esperienza. Per quel che ho visto sino ad oggi, confrontandomi con colleghi di diverse formazioni, non è tanto l’orientamento teorico del terapeuta a sancire l’efficacia o meno del trattamento, quanto l’accoppiata paziente – terapeuta. L’incontro tra i due può essere fruttuoso o meno, in modo abbastanza indipendente dalla scuola a cui appartiene il clinico.
      Rispetto all’attacco di panico è assolutamente utile la psicoeducazione, ma per quel che mi riguarda non è sufficiente. Lavorare concentrandosi solamente sull’attacco di panico è rischioso e tende a portare a ricadute. Nel mio lavoro tendo a considerarlo la manifestazione di un conflitto e di un disagio sottostanti che si esprimono in tal modo. Così come nel caso di un infezione sarebbe poco utile occuparsi solo della febbre e cercare di abbassarla senza preoccuparsi di cosa la causi, nell’attacco di panico trovo più efficace allargare il campo per comprendere e trattare il conflitto sottostante. Così facendo spesso succede che gli attacchi regrediscano nel giro di pochi mesi e si aprano nuovi interrogativi ed orizzonti di senso, che una volta analizzati permettono un miglioramento stabile, duraturo e soddisfacente.
      Saluti!

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