Premessa: giovane psicologo lo sono anche io. In questa rubrica vi racconterò fatti, riflessioni e possibili consigli pratici nati nei miei primi anni di pratica clinica.

Episodio precedente

A. è un uomo di 45 anni, operaio. Sembra un uomo buono e pacifico, viene da me per una serie di attacchi di panico, fobie ed ipocondrie: ha paura di ammalarsi di qualunque cosa, di sviluppare allergie improvvise, di avere incidenti stradali, di soffocare mangiando.

Ad un certo punto, dopo qualche mese di incontri inizia a parlarmi di una donna, una vicina di casa. La descrive quasi con odio, con parole ed espressioni del viso che non avevo mai visto in lui.

È quasi violento, arriva a dire che questa donna è peggio di un diavolo, il suo linguaggio diventa estremo, strabordante di livore; come se passasse da una lingua più quotidiana e reale ad una più fantasmatica ed infantile.

Descrive cosa le augura, cosa le farebbe, quanto è stupida ed inutile. Quando lo fa sembra quasi trasfigurarsi. È come un bambino arrabbiato mentre ne parla, e con questa vicina ha solo qualche rapporto sporadico.

Ogni volta che entra in scena questo personaggio io non faccio che pensare alla madre che ho incontrato spesso in sala d’attesa.

 

G. è una donna di 50 anni, lavora in banca, in un ruolo dirigenziale. Si racconta come una persona che è sempre riuscita in tutto, che avrebbe potuto avere successo in diversi campi.

Da giovane ed ai tempi dell’università ha brillato prima nell’atletica, poi si è buttata nella pittura e poi negli studi accademici in economia. In un modo o nell’altro ha sempre abbandonato la strada, fino al momento in cui ha deciso di “mettere la testa a posto”, si è innamorata, ha cercato il posto fisso, si è sposata ed ha avuto 2 figli.

Viene da me per una insoddisfazione generale, come se qualcosa in lei e nella sua vita non andasse, non funzionasse e forse non avesse mai funzionato. Dice di non riuscire più a trovare un senso a chi è ed a ciò che fa.

Un tema centrale per un lungo periodo nelle nostre sedute è la passione, il sentire intimamente le cose che si fanno e l’autenticità nel rapporto con se stessa.

Appare ad un certo punto – personaggio delle sedute e collega di G – una donna: G ne parla continuamente, e finisce quasi con l’innamorarsene, non tanto in termini sentimentali, ma per il suo modo di vivere ed essere nel mondo.

È una donna che ha fatto un’infinità di esperienze, anche estreme: sessuali, con le sostanze, ha fatto decine di viaggi, ha due matrimoni alle spalle, ha seguito sempre quello che sentiva e le piaceva, non preoccupandosi delle conseguenze e del giudizio degli altri.

La collega torna a trovarci quasi in ogni seduta per alcuni mesi. È come se la paziente dovesse imparare da lei, prendere da lei qualcosa a livello emotivo ed esistenziale.

Il rapporto di G. con la collega ha dei tratti diversi da ogni altro rapporto raccontato: la paziente non considera quasi come la collega si sia praticamente bruciata – è alcolizzata, ha distrutto due matrimoni e non ha quasi più nessuno vicino.

G. sa e vede queste cose, ma è come se non le considerasse. Inoltre G. tende a sentirsi intimamente ferita ogni qual volta percepisce anche lievi rotture nel loro rapporto, li vive come tradimenti o esclusioni e ne soffre intimamente e silenziosamente, il tutto con sentimenti che hanno chiari tratti infantili.

 

M. è un paziente di 31 anni, medico, viene da me per una lieve crisi depressiva. Nel tempo emerge come la figura del padre sia come l’incarnazione della bontà suprema.

Ogni volta che ci si avvicina alla sua immagine M. si commuove, ne parla come di un uomo buono, che ama la terra ed i bambini. È vissuto da lui come persona quasi inavvicinabile, che tutto guarisce ed e illumina.

Alcune volte ho provato ad introdurre io il personaggio, quando nello spazio della seduta qualcosa rimandava a lui, alle emozioni o ai sentimenti da lui incarnati. È però un personaggio intoccabile: è difficile parlarne senza essere invasi dall’energia che porta con sé e verso cui sia io che il paziente ci sentiamo piccoli ed indegni.

Nel tempo sono apparsi altri personaggi, reali o onirici, con caratteristiche simili a quelle del padre. Ogni volta il paziente ne rimane colpito, commosso e insieme ci si interroga sui motivi della sua attrazione per queste parti gentili e commoventi.

Nel tempo anche io sono entrato a far parte di questi personaggi, l’aura di uomo buono ha ricoperto anche me. Almeno un paio di volte il paziente ha commentato la mia gentilezza, immergendosi ed immergendo me nelle stesse sensazioni che ruotavano attorno al padre.

È una situazione di transfert idealizzato a me molto comoda, che mi fa sentire di avere creato una buona alleanza con il paziente.

Ogni volta però che io o lui abbiamo in mente il personaggio-padre sento che qualcosa non va, l’ombra di questo personaggio non permette di pensare, non permette al paziente di svilupparsi, lo fa sentire in colpa ed indegno del suo amore, come in un continuo confronto impossibile.

Un giorno ho dovuto disdire una seduta con poco anticipo, avevo avvisato il paziente di questa possibilità. La seduta successiva M. ha deciso di interrompere la terapia, senza darmi alcuna possibilità di approfondire la cosa.

 

Il doppio registro

Cerco di lavorare avendo sempre in mente un doppio registro: tendo un orecchio ai contenuti concreti della seduta, ai fatti raccontati ed alle emozioni vissute, mentre l’altro è attento al fluire fantasmatico ed ai personaggi che appaiono e scompaiono nel tempo.

Come se considerassi la seduta ed il procedere degli incontri anche come un romanzo: l’ingresso di un personaggio importante mette all’erta, sta succedendo qualcosa, la trama sta per cambiare.

Ogni personaggio arriva in un particolare momento della terapia, viene inserito inconsciamente dal paziente come farebbe uno scrittore quando con un nuovo personaggio sta innescando un cambiamento, il personaggio compare per dire qualcosa della storia narrata e del paziente.

Sono personaggi reali, ma anche indicatori di processi profondi – tutti interni al paziente – che si stanno mettendo in moto. Questa forma di pensiero, che ho iniziato a sperimentare dopo aver incontrato i libri di Antonino Ferro e di Thomas Ogden, è incredibilmente utile ed efficace per aprire ed allargare il senso di quello che si fa in seduta, fa nascere continui spunti, connessioni e pensieri, mantenendo vivo il pensiero del terapeuta.

 

I titani

I personaggi delle vignette che ho presentato li ho soprannominati i titani, a causa della loro forza, imponenza e della loro possibile pericolosità. Emergono spesso nel corso della terapia e se sfruttati portano nuovo materiale e nuovi interrogativi su cui lavorare.

Sono personaggi abbastanza semplici da riconoscere: il paziente cambia quando parla di loro, attivano in lui lati sconosciuti, spesso più primitivi ed infantili.

In alcuni casi si può notare anche dal corpo: quando il paziente sta lavorando con uno di questi personaggi la postura varia, può divenire più chiusa, ricordare quella di un bambino, possono emergere gesti ripetuti, si accarezza le mani o le cosce, lo sguardo diventa più profondo, il viso cambia espressione.

A volte i cambiamenti possono arrivare a stupire, un paziente molto intelligente potrà sembrare instupidirsi di colpo e noi non riusciremo quasi a capire come mai sta ragionando in questo modo; un paziente con ideali di sinistra potrà diventare di colpo perversamente razzista, un paziente che abbiamo in mente come buono e pacato potrà diventare stranamente violento nei modi e nel linguaggio.

I titani sono sempre indicatori di complessi profondi che si attivano e quasi sempre hanno a che vedere con la storia ed i personaggi importanti della vita del paziente.

Per questo sono preziosi e vanno profondamente indagati in terapia. Vanno prima accolti, poi interrogati e compresi, quasi coccolati, nonostante sembri così folle la loro presenza.

È utile farseli raccontare, farseli descrivere proprio come si farebbe con un personaggio di un romanzo: com’è? come veste? che tipo è? come si comporta?

Soprattutto è utile indagare le reazioni emotive che il paziente ha nei loro confronti, anche le microreazioni a semplici interazioni, come quando il paziente si sente silenziosamente ferito da loro, tradito, accusato.

Allo stesso modo sono importanti le fantasie che il paziente ha su di loro, i desideri che ha nei loro confronti, l’invidia o la rabbia, il senso di inferiorità o di superiorità. Possono essere una fonte preziosa di dati per noi e generatori di profondi insight, ma vanno affrontati in modo molto cauto, perché il paziente tende ad essere rapito ed accecato da loro, non è in grado, almeno all’inizio, di osservarli con occhi oggettivi.

Ogni intervento o interpretazione su di loro deve avere un timing cauto ed accorto. Invitate il paziente a interrogarsi sul ruolo del personaggio nel suo percorso interiore, sul perché sia così importante, ingombrante e sia apparso proprio ora, insegnategli poi a lasciare sullo sfondo il personaggio reale per incontrare e giocare con quello interno e con il materiale, le emozioni e gli affetti che il personaggio stimola in lui.

Personaggio reale e personaggio della terapia vanno distinti, per costruire un’osservazione che sfrutti il materiale al di là degli eventi che riguardano il personaggio reale.

Sono importanti gli episodi, ma è ancora più importante approfondire e raccontare gli accadimenti interni e la grammatica emotiva che il personaggio mette in luce.

Una volta elaborati e “lavorati” questi personaggi tendono a disciogliersi, la loro forza diminuisce e il paziente diviene più oggettivo nei loro confronti, inizia ad osservare i movimenti interni provocati da loro, le sue reazioni e comprende i legami profondi che esistono tra il personaggio, la propria interiorità e, spesso, le proprie ferite.

In quel momento probabilmente inizierà anche a cambiare il rapporto che il paziente ha nei confronti del personaggio reale, ormai ripulito dalle componenti prima inelaborate. In attesa dell’ingresso di un nuovo personaggio.

ADESSO COSA PENSI?