Sappi che tutte le strade, anche le più sole

hanno un vento che le accompagna

e che il gomitolo, forse

non ha voluto diventar maglione

che preferisco non imparare la rotta

per ricordarmi il mare

(Gianmaria Testa)

 

M. è una donna di 38 anni.

Viene da me per un problema che riguarda le sue relazioni sentimentali. Non riesce a costruire alcuna storia amorosa soddisfacente. Ha avuto rarissimi rapporti sessuali, nonostante abbia una vita relazionale ricca grazie al lavoro e agli hobby che tuttora mantiene.

Finisce spesso nella posizione della amica degli uomini. Porta in sé un’idea di uomo rigida e stereotipata, quella della persona egoista e opportunista che pensa solo al sesso e a usare le donne.

Un’idea decisamente radicata, che le impedisce di creare qualsiasi forma di relazione differente (ha avuto uomini che l’hanno corteggiata in modo romantico e che desideravano conoscerla sinceramente), che le provoca rabbia e rancore verso il maschio ed invidia verso le donne innamorate. “Povere illuse!” mi fa intendere spesso.

Si dibatte tra la voglia ed il timore di innamorarsi, così come tra una sessualità romantica, ardentemente desiderata ma un poco stereotipata, ed una più libera, di scoperta, consapevole e priva di sensi di colpa, ma che l’avvicina pericolosamente all’idea della “scopata”, maschile e squallida. Vive momenti depressivi ed in alcune occasioni lamenta ansia immotivata.

La terapia prosegue per un lungo periodo aiutandola a trovare la sua forma di desiderio verso il maschile. Indaghiamo ed approfondiamo i confini biografici in cui si è costruito il suo mondo relazionale interno, tentiamo lentamente di scovare, riconoscere ed approfondire altri mondi di relazione uomo-donna. Seguendo e incoraggiando soprattutto il suo sentire, analizziamo la patina di pensieri, dinamiche impaurite e leggermente paranoiche che sovente lo caratterizzano.

Le cose lentamente iniziano a muoversi. Da un po’ di tempo si sta avvicinando agli uomini con una minor paura di essere usata, sta iniziando a fidarsi delle sue nuove sensazioni e della risposta da parte dell’altro.

“Forse non tutto è così netto – si domanda. Forse può abbassare qualche difesa e permettere a qualcuno di avvicinarsi, scoprirsi e prendere qualcosa che possa nutrirla senza ferirla.”

Il discorso tra i pensieri, il “cervello”, e la sua pancia è meno arzigogolato, più fluido e limpido, inizia a fidarsi di quello che sente e di quello che intuisce nella relazione. Può pensarlo, può dirlo e forse immagina di iniziare ad agirlo.

Ad un corso di fotografia incontra G., spesso chiacchierano, c’è qualche sorriso, un lieve avvicinarsi. Da parte sua (di G.) c’è un cordiale ricambiare, anche se la sua posizione sembra non essere definita. I due si studiano, si osservano, si annusano. Man mano che passa il tempo M. inizia a pensare che sia possibile avvicinarlo ancora di più, forse tentando un blando corteggiamento.

La burrasca

In una seduta arriva da me molto provata, con un mix emotivo di rabbia, rancore e disperazione. Anche il suo viso ed il suo corpo sembrano diversi, più stanchi e tirati, come di chi avesse pensato e combattuto sino a sfinirsi.

Racconta di aver visto G. passeggiare in un parco con un’altra donna. Niente altro, non li ha seguiti, non ha visto effusioni o comportamenti equivoci. Non sa che pensare. È consapevole che potesse essere un’amica, una cugina, una collega. In lei comunque si scatena una tempesta.

Da allora dorme poco, è ansiosa e arrabbiata, rimugina su G. e sull’accaduto. Come se tutto fosse crollato, come se tutto si fosse svelato; quello che realmente lei già conosceva e solo aveva bisogno di confermare: G. voleva andare a letto con lei e con la donna del parco. Voleva scoparsele e basta.

La nostra storia terapeutica, le sue emozioni, la fiducia che aveva lentamente ritrovato nelle sue sensazioni vengono spazzate via. Minaccia di chiudere anche con me, di chiudere con gli uomini, con le relazioni e con l’amore. È persa e arrabbiata.

La danza

Cerco spesso di iniziare ogni seduta come se il paziente fosse “nuovo”, come se non lo conoscessi, come se lo vedessi per la prima volta. Bion scriveva che ogni incontro terapeutico andrebbe affrontato “senza desiderio e senza memoria”.

Questo permette di ascoltare profondamente le parole, dette e taciute dal paziente, accostandosi a lui spogliati dei filtri e delle strutture che possono ingannare o spingere le nostre menti in direzioni che non emergono naturalmente, ma che finiscono con l’essere pilotate dal terapeuta – anche inconsciamente.

Questo vuoto, questa attesa fiduciosa, solitamente permette a chi ci siede di fronte di accedere, senza l’ingombro del giudizio e delle aspettative dell’altro, a zone poco frequentate di sé, spesso ricche e generative per la terapia. Oppure di entrare in contatto con territori feriti, con angosce, con dolori privi di parola.

La speranza è che il risultato di un tale atteggiamento, unito al ruolo di un silenzio presente, portino qualcosa di prezioso per il paziente. Un silenzio inizialmente sconosciuto e per questo inquietante, che tende poi a trovare una sua parola, un suo linguaggio che arricchisce il mondo interno (mi verrebbe da dire del paziente, ma in realtà arricchisce paziente, terapeuta e incontro tra i due).

È un gioco che può anche risultare pericoloso, il vuoto ed il lavoro del togliere creano sia la spinta indispensabile alla scoperta, sia l’angoscia del nulla, il timore di perdersi, la paura di non riuscire a riemergere. Per questo andrebbe dosato con perizia.

Vi sono però situazioni, come quella che vi ho illustrato, in cui ho l’impressione che il lavoro indispensabile sia quasi opposto: l’avere ben saldo in mente chi è il paziente che abbiamo di fronte, quali sono i numeri che insieme abbiamo visto definirlo e identificarlo. Soprattutto riguardo alle zone emerse timidamente in terapia, che ancora sono fragili e poco radicate.

Succede in momenti in cui il paziente si è avvicinato a qualcosa di estremamente doloroso e ri-traumatizzante. Vengono allora scosse profondamente le certezze del paziente, mettendo soprattutto alla prova l’idea e l’esperienza che ha di sé e che è venuta faticosamente modificandosi nel corso della terapia.

Come in un terremoto tutto traballa, nasce l’idea che il lavoro fatto fosse tutto un’illusione, che sia stato un bel gioco e che i mostri che lentamente erano stati compresi, avvicinati ed addomesticati, in realtà stessero facendo un doppio gioco, e siano tornati tali e quali a prima. Abbiamo perso, non abbiamo neppure mai sfiorato la vittoria, è stato un teatro piacevole ma fasullo.

Sono incontri tempestosi, per questo ho pensato all’espressione del mantenere il timone. L’idea non è tanto quella di arrivare esattamente alla destinazione stabilita, ma almeno di arrivare sul vasto tratto di costa immaginato, soprattutto evitando di perdersi definitivamente.“

In questo tipo di sedute, viene a crearsi una danza, che oscilla tra il tenere ben saldo il timone ed il lasciarlo andare per conoscere il mare, i suoi movimenti e la sua natura. Sono due tipi di movimenti e di dinamiche opposte. Andrebbero come sempre accolti e compresi. Una volta individuati possono essere riconosciuti e, seppur in modo mai netto e definito, utilizzati.

La prima è una dinamica di esplorazione e ricerca, che lascia emergere il vissuto di rabbia, dolore e smarrimento, che permette al paziente di sentirlo, viverlo e purtroppo soffrirne. È come se si allontanasse dalle zone conosciute e sicure di se stesso, per sentire qualcosa che è un parte di sé sconosciuta, poco frequentata, improvvisa e indesiderata.

Nel caso di M questa parte di lavoro è consistita nell’aiutarla a sentire e comprendere cosa si è riacceso in modo così violento e fulmineo, come mai è successo, cosa porta dentro ora e come è possibile allargare il campo per generare nuovi significati evitando di ingabbiarsi e soffocare.

Più questo lavoro procede e ci si allontana dal conosciuto, più salgono l’angoscia e la paura di non poter tornare indietro, di compromettersi, di scoprire follie e dolori che potrebbero sommergerla definitivamente.

Nel secondo movimento, un movimento di riconoscimento e di ritorno, avviene l’opposto. Il paziente torna a se stesso, riconoscendo di non essersi perso. Prende fiato e riprende a pensare. Noi curanti, tenendo in mente ciò che sappiamo e che abbiamo conosciuto del paziente, conserviamo un’immagine con una seppur minima stabilità, che possiamo fornirgli al bisogno.

In questo caso afferriamo nuovamente il timone, dopo essere stati guidati e percossi dalle forze in gioco. Come dicessimo al paziente: “hai visto il tuo ignoto, ma qui, ne sono testimone, c’è anche il tuo conosciuto. Io lo ricordo e lo tengo stretto”. Abbiamo fatto qualcosa insieme che non è andato in fumo. Io so e tengo traccia della nostra esistenza.

La presenza di una sola di queste due dinamiche diviene pericolosa per il paziente e per la terapia. Accompagnarlo solamente nell’analisi e nell’esplorazione dell’angoscia lo distruggerebbe, rischierebbe di perdersi e non reggere ad un qualcosa che ancora non è digeribile dalla sua mente.

Proteggerlo per tutto il tempo renderebbe il lavoro sterile. Possiamo ricordargli chi è, chi siamo e dove siamo, ma non deve essere, nemmeno in questi passaggi così difficili e tempestosi, una risposta definitiva, che chiude.

Questo gioco di allontanamento e riavvicinamento allena il pensare del paziente, allarga il suo contenitore mentale, permettendogli di prendere dimestichezza con ciò che diversamente tendeva a bloccarlo, ammutolirlo e angosciarlo senza produrre pensiero ed esperienza.

Noi come portatori di un’immagine, non dobbiamo dimenticare il paziente, non dobbiamo lasciarlo solo. O meglio, gli dobbiamo lasciare il tempo necessario per permettergli di crescere senza soffrire troppo.

Questo chiaramente è una dinamica che può essere ritrovata con diverse intensità in quasi ogni incontro. Nel caso di oggi però diventa particolarmente violenta ed il desiderio di spingersi in una sola direzione può sedurci e ingannarci.

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Gabriele Ramonda
Sono psicologo clinico specializzando in Psicoterapia Psicoanalitica. Collaboro con il Centro di Psicoterapia presso l'ASL Torino1, ricevo in studio a Chieri e a Torino. Collaboro con i servizi sociali torinesi nel settore disabilità. Ho lavorato per alcuni anni come psicologo in comunità terapeutica “Il Porto Onlus“, dove ho seguito in tempi diversi disturbi di personalità, dipendenze e psicosi. Mi sono poi dedicato alla riabilitazione psichiatrica in gruppi appartamento. Oggi mi occupo anche di marketing, fotografia e comunicazione: ho co-ideato e co-fondato Nora Photobooth, prima impresa italiana a occuparsi di Photobooth nel campo degli eventi e della comunicazione. Lettore appassionato, disorganizzato ed un po' anarchico. Scrivo articoli, riflessioni e poesie confuse. "Considero la psicologia e la psicoterapia non solo come dei solidi e provati strumenti di cura, ma anche come metodo di ricerca di senso, di possibilità di riflessione e conoscenza di sé che va al di là del semplice adattamento alla realtà." Contatti: info@psicologiaramonda.it

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