Molti conoscono l’immagine qui sopra, la creazione di Adamo, un affresco situato nella Cappella Sistina. Forse pochi, però, sono a conoscenza di una curiosità. Se fate caso, il drappo e la schiera di angeli attorno alla figura di Dio sembrano delimitare la sagoma di un cervello. Cosa voleva comunicare il Buonarroti, autore dell’opera?

Secondo alcuni studiosi, l’intenzione era di trasmettere un concetto della filosofia neoplatonica: l’unità tra uomo e Dio che si compie attraverso l’intelletto.

Ad oggi qualcuno non si troverebbe d’accordo con tale affermazione. Ma allora, che cosa legherebbe l’uomo a Dio? Secondo L. A. Kirkpatrick (1990) la stessa cosa che ci ha legati ai nostri genitori: l’attaccamento.

Giusto per rinfrescare la memoria, con il termine attaccamento (Bowlby, 1969-80) ci si riferisce al tipo di legame affettivo che il bambino instaura con chi si prende cura di lui nei primi anni di vita.

(Per un approfondimento vedi “Il teatro della mente: attaccamento e copioni mentali”).

Questa figura, detta anche caregiver, si occuperebbe non tanto di rispondere ai bisogni fisiologici dell’infante, quanto piuttosto a quelli emotivi.

La loro gratificazione si accompagna a sentimenti positivi e tale esperienza viene interiorizzata dal bambino sottoforma di schemi mentali chiamati modelli operativi interni, delle rappresentazioni cognitive ed emotive di sé, dell’altro e della relazione con l’altro.

La funzione a lungo termine di questi schemi è quella di fornire “un prototipo” di come si sta con gli altri, sulla base del quale verranno costruiti legami significativi in età adulta.

In sostanza, la storia delle nostre relazioni passate, sia positive che negative, influenza come costruiremo i nostri rapporti interpersonali nel futuro.

Lo psicologo americano Kirkpatrick afferma che Dio può essere inteso come una figura di attaccamento in quanto il legame con Lui soddisfa tutti i criteri che definiscono tali relazioni, tra cui proprio l’essere una relazione d’amore.

Sarebbero quattro i processi di attaccamento che si riflettono nell’esperienza religiosa:

  1. La ricerca e il mantenimento della prossimità con Dio

Il bambino ricerca innanzitutto la vicinanza dell’adulto. In un primo momento quella fisica, attraverso comportamenti come il pianto o il tendere le braccia. Nel corso dello sviluppo, impara ad interiorizzare la figura di attaccamento, a crearne un’immagine mentale a cui poter accedere per sentirne la prossimità.

Le credenze religiose suggeriscono diverse modalità per mantenere la vicinanza a Dio: la sua stessa onnipresenza, la costruzione di luoghi di culto e soprattutto la preghiera, che si costituisce come una connessione intima e privilegiata.

  1. Il vissuto di Dio come “rifugio sicuro”

Una delle finalità dell’attaccamento è anche quella di rispondere al bisogno di protezione dai pericoli in situazioni che vengono percepite come minacciose.

Non è infrequente un avvicinamento alla fede in periodi di particolare crisi o a fronte di eventi incontrollabili (come la morte e la malattia) in cui solo la speranza in qualcosa che va oltre può fornire un’ancora di salvezza.

  1. Il vissuto di Dio come base sicura

Il caregiver funge anche da base sicura nel processo di esplorazione dell’ambiente circostante. Il bambino può muoversi liberamente e spensieratamente solo se percepisce la presenza di un nido a cui poter fare ritorno.

Dio sarebbe un appoggio nell’esplorazione della vita, una roccia su cui costruire la propria esistenza. Una religiosità autentica, infatti, sembra essere positivamente correlata ad un senso di competenza e controllo della propria esistenza e ad un approccio attivo e flessibile nella risoluzione dei problemi.

  1. Le reazioni alla separazione dalla figura di attaccamento

Un particolare evento che elicita l’espressione del tipo di attaccamento instaurato è la separazione, ossia il distacco, da una persona importante.

Anche la perdita della fede, l’allontanamento da Dio, secondo alcune ricerche, può avere un risvolto psicologico analogo alla rottura di altre relazioni interpersonali significative, come ad esempio il divorzio.

Kirkpatrick approfondisce ulteriormente il tema andando ad analizzare le differenze individuali e proponendo due modelli esplicativi sulla relazione tra attaccamento “umano e divino”.

Il Modello della corrispondenza

Secondo questa ipotesi l’attaccamento a Dio si configurerebbe in continuità agli attaccamenti costruiti nell’infanzia e nell’età adulta.

Chi ha un modello mentale con un’immagine di sé sicura e una rappresentazione positiva della relazione con l’altro, considererebbero Dio in modo simile, quindi disponibile e rassicurante.

Individui con un orientamento evitante nei confronti delle relazioni strette potrebbero percepire Dio come una figura distante e inaccessibile.

Chi presenta invece uno stile di attaccamento ambivalente può intraprendere una relazione profonda, ma eccessivamente dipendente, con forti vissuti emotivi che oscillano tra rabbia e un forte coinvolgimento e Dio potrebbe essere esperito come inaffidabile.

Modello della compensazione

In alcuni casi, è possibile che il bambino abbia fatto esperienza di una figura di attaccamento che non ha risposto ai suoi bisogni di vicinanza e protezione. Da adulto potrebbe credere che i suoi sforzi per costruire un legame affettivo potrebbero non raggiungere alcun risultato.

In questi casi gli individui si rivolgerebbero a Dio come una figura di attaccamento sostitutiva.

A partire dal contributo di Kirkpatrik, si sono sviluppati diversi filoni di ricerca (Granqvist, 2010; Kirkpatrick, 1992). Sono emerse connessioni tra attaccamento sicuro al genitore e un’immagine di Dio positiva (Granqvist, Mikulincer, Gewirtz, & Shaver, 2012; Kirkpatrick, 1998; Kirkpatrick & Shaver, 1992; Reinert & Edwards, 2009).

È stata riscontrata un’associazione tra uno stile insicuro di attaccamento e un’immagine di Dio come distanziante e controllante (Granqvist et al., 2012; Kirkpatrick & Shaver, 1992).

Dickie et al. (2006) hanno constatato che è in particolare l’attaccamento materno a influenzare lo sviluppo del concetto di Dio nel bambino.

Alcune riflessioni

Scrive Boris Cyrulnik, neurologo e psicoanalista francese, nel saggio Di carne e d’anima (Frassinelli, 2007):

«L’attaccamento a Dio permette di riflettere sul sentimento religioso come esperienza emotiva. Non si tratta di dimostrarne l’esistenza o di confermare un dogma, ma di comprendere l’effetto affettivo di Dio come un “fervore personale, un’illuminazione interiore”, che supera la semplice riflessione sulla religione.»

Da psicologa mi chiedo quanto noi professionisti dedichiamo all’esplorazione dell’esperienza di fede dei nostri pazienti. Quanto siamo in grado di andare al di là dei nostri sistemi di credenze e creare lo spazio adeguato affinché ciascuno si senta libero di parlare del proprio rapporto con Dio (indipendentemente dal nome che gli dà).

Sono ormai noti i fattori salutogenici e patogenetici della pratica religiosa, ma diverso è considerare le proprietà che questa assume nel momento in cui la si pensa come un rapporto con Qualcuno, piuttosto che con qualcosa.

Guardando all’attualità, invece, potremmo avere una nuova lettura del bisogno odierno di spiritualità. Questa ricerca potrebbe configurarsi non come distacco ascetico dal mondo, ma come il desiderio di entrare in relazione.

Se si pensa all’invenzione della religione unicamente con una funzionalità esplicativa (i fulmini esistono perché c’è un dio che li scaglia sulla terra), possiamo ben affermare che in migliaia di anni in realtà i vari credo hanno spiegato ben poco.

Un’altra funzione si svelerebbe nell’esperienza emotiva di Dio: lo sperimentare una relazione in cui esiste Qualcuno in grado di amarci nel modo in cui abbiamo bisogno (più che di come vorremmo).

Come credente questo articolo fa seguito ad una riflessione iniziata già in passato: che rapporto ho io con Dio?

Lo cerco, lo tengo lontano, mi fido, mi arrabbio, mi confido, gli mostro le mie debolezze, pretendo qualcosa da Lui?

Alla luce di quanto detto, non serve andare molto lontano per trovare la risposta.

“Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello”.

(1Gv 4,19-5,4)

 

Bibliografia

Kirkpatrick, L., A. Attaccamento e rappresentazioni e comportamenti religiosi, In Cassidy, J., Shaver, P.R. (Eds.). Manuale dell’attaccamento, Fioriti, Roma, 1999.

Kirkpatrick, L., A., 1990. Attachment Theory and Religion: Childhood Attachments, Religious Beliefs and Conversion. Journal for the scientific study of religion. Vol. 29, No 3, pp. 315-334.

 

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Serena Carpo
Sono Serena (di nome, di fatto ci provo). La scelta di diventare psicologa è nata dalla mia curiosità verso la straordinarietà della mente umana e dall’incapacità di rassegnarmi all’idea che la sofferenza sia qualcosa di inutile. Mi sono laureata in Psicologia Clinica, dello Sviluppo e Neuropsicologia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Il mio futuro professionale è un work in progress. Il tirocinio presso la neuropsichiatria infantile dell’ASL della mia zona (un paese lacustre del Piemonte) ha fatto nascere in me il germe di un progetto: rendere il diritto alla salute, fisica e mentale, un bene accessibile e di qualità. Svolgo un’attività di volontariato che, oltre a costituire un grande arricchimento umano, considero come un vero osservatorio dei bisogni del territorio e un’ottima palestra di ascolto. Conosco la lingua dei segni (LIS), amo scrivere, disegnare e pensare in modo creativo. Credo in diverse cose, tra cui una psicologia vicina alla persona, che abbia il rigore della ricerca e la veridicità della clinica, che sia un lavoro fatto con passione e che non si dimentichi di essere a servizio dell’altro. Contatti: s.carpo@hotmail.com

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