Ho conosciuto il silenzio delle stelle e del mare
e il silenzio della città quando si placa
e il silenzio di un uomo e di una vergine
e il silenzio con cui soltanto la musica trova linguaggio
il silenzio dei boschi
prima che sorga il vento di primavera
e il silenzio dei malati quando girano gli occhi per la stanza
e chiedo: Per le cose profonde a che serve il linguaggio?
Un animale dei campi geme una o due volte
quando la morte coglie i suoi piccoli
noi siamo senza voce di fronte alla realtà
noi non sappiamo parlare.
Un ragazzo curioso domanda a un vecchio soldato
seduto davanti alla drogheria:
Dove hai perduto la gamba?
E il vecchio soldato è colpito di silenzio e poi gli dice:
Me l’ha mangiata un orso
e il ragazzo stupisce
mentre il vecchio soldato muto rivive come un sogno
le vampe dei fucili
il tuono del cannone
le grida dei colpiti a morte
e se stesso disteso al suolo
i chirurghi dell’ospedale
i ferri
i lunghi giorni di letto
ma se sapesse descrivere ogni cosa
sarebbe un artista
ma se fosse un artista
vi sarebbero più profonde ferite che non saprebbe descrivere.
LEE MASTER Ho conosciuto il silenzio.

 

A. è una donna di 32 anni,

viene da me dopo la fine di una lunga storia d’amore, durata più di 10 anni. La rottura è avvenuta in modo abbastanza repentino dopo la scoperta di una storia parallela da parte del suo ex compagno. La spingono a chiedere aiuto degli attacchi di ansia intensa, un’ansia generalizzata che oscilla durante la giornata e alcuni episodi in cui ha avuto la sensazione di impazzire. Dopo alcuni mesi sta cercando di incontrare e conoscere nuovi uomini.

In quest’ultimo periodo stiamo lavorando sul dolore provato nel momento in cui si è sentita tradita. L’ex compagno le è risultato quasi irriconoscibile, al punto da mettere in dubbio le sue sensazioni, i suoi pensieri e la sua capacità di capire e stare al mondo. Come se avesse scoperto una parte di lui mai neppure immaginata. Allo stesso modo sta nascendo in lei una parte nuova, che è in grado di vedere le persone in modo più complesso. Da un po’ di incontri è come se girassimo intorno all’argomento dolore, iniziando prima a nominarlo, poi a descriverlo, fino a costruirvi un paesaggio, una scena che spero lo possa contenere. E’ spesso una cronaca, una descrizione di quello che ha provato allora, mentre in seduta si sente poco, sembra lontano.

Continuiamo, A. mi racconta di quando ha iniziato ad avere alcuni dubbi, ma erano sensazioni che non possedevano un linguaggio, nella sua mente non compariva mai la frase “non è che ha un’altra?”. Era fuori dai suoi confini di pensiero. L’impensabile che la abitava inizia ad essere perlomeno considerato. Riesce finalmente a dirsi ed a dire quelle parole, a vedere quello che stava vivendo allora e a sentire un mix oscillante di rabbia e compassione per la persona che era. Contemporaneamente si aprono ricordi in cui ha vissuto situazioni simili.

Inizia lentamente a piangere – non piange mai in seduta. L’atmosfera della stanza si riscalda, la cronaca diventa un racconto ed emerge una grande quota di dolore, legata all’evento di cui parliamo, ma soprattutto al suo riconoscersi così, al suo vedere quello che ha fatto inconsapevolmente a se stessa, il tradimento nei suoi propri confronti. La ascolto, passano alcuni minuti tra pianto e silenzio, sono però molto a disagio. A. guarda prima il pavimento, poi me, per distogliere nuovamente lo sguardo. Ci guardiamo ogni volta per non più di 2-3 secondi, poi distolgo lo sguardo, come se sentissi che non ce la faccio, il mix di dolore, nudità e profondo imbarazzo è troppo. A volte riesco a stare con lei e basta, consapevole che non c’è altro da fare. Oggi risulta più difficile, mi trovo come ad aver il desiderio di chiudere l’argomento, di deviare. Ho come la sensazione che i suoi occhi mi chiedano sostanzialmente due cose, in modo quasi infantile: “cosa devo fare? dammi una soluzione per risolvere questa cosa, in fretta” e “sto male nel mostrarmi così, è nuovo ed inaccettabile per me, non ci riesco”.

Ecco il conflitto che si crea in me, sono diviso nell’ascolto di queste due parti: la prima che cerca di reggere ed elaborare con lei il dolore, la seconda che insiste “andiamo oltre, fa male”. Ad un certo punto sento la mia voce dire “ha fatto qualche sogno questa settimana?”. L’atmosfera immediatamente si sgonfia, mi trovo confuso e stupito dalle mie stesse parole.

L è un uomo di quasi 50 anni.

Inizia una terapia per una insoddisfazione generale nei confronti della propria vita. E’ single, ha un buon lavoro, alcuni hobby. Insonnia ed un costante senso di tristezza ed inutilità lo spingono a chiedere aiuto. La terapia procede abbastanza bene. Ci stiamo occupando di un episodio della sua infanzia, in cui la madre lo ha minacciato di affogarlo se non avesse mantenuto un segreto nei confronti del padre. E’ un racconto estremamente doloroso, che si conclude con pianto ed un lungo silenzio.

Oggi sono particolarmente stanco, privo di forze, penso a fatica. Continua il silenzio, non ci sono davvero parole, né mie né del paziente, che possano dare forma a quello che è venuto fuori. A quel punto, quando la tensione diviene troppa, senza aver pensato quanto necessario, mi trovo a cambiare posizione sulla poltrona, contemporaneamente faccio un lungo respiro e mi arrotolo le maniche della camicia. Il messaggio implicito è chiaro – col senno di poi – “basta, andiamo oltre? non riesco a vederla così” nuovamente siamo schiacciati da un conflitto, non conscio e non esplicitato, stiamo nel dolore e ci lavoriamo o è troppo, andiamo via?

Siamo abbastanza abituati come terapeuti alla fuga dal dolore dei pazienti. Difese, resistenze, sedute saltate, attacchi alla terapia. Ed è piuttosto naturale, non è piacevole soffrire. Sono situazioni e momenti che si possono riconoscere, a volte sono palesi, a volte più nascosti e mascherati, ma la sensazione di ciò che sta avvenendo spesso è abbastanza chiara. Psicoanalisi e psicologia clinica si sono largamente occupate dell’argomento.

Vi sono casi, come quelli che vi ho presentato, in cui è il terapeuta a fuggire dal dolore insieme al paziente. Diviene complice della fuga.

Sono spesso dinamiche più raffinate, nascoste e camuffate furbescamente, celate da movimenti silenziosi o interventi pseudo-terapeutici, trucchi analitici.

Vi porto alcuni indicatori di tali fughe, che ho riscontrato nel mio lavoro:

  • distogliere lo sguardo e guardare in giro per la stanza (non per pensare, ma per evitare di farlo)
  • fare domande sulla giornata, sulla settimana
  • fare domande su un argomento che sappiamo attivare o interessare il paziente
  • chiedere dei sogni
  • andare incongruamente alla scorsa seduta
  • recuperare contenuti forti già affrontati
  • cercare connessioni sterili e premature
  • mostrare una inutile capacità analitica con interventi eleganti
  • stare fintamente vicino, rispecchiare i contenuti del paziente,con frasi quali: “deve essere molto difficile sopportare tutto ciò”*

Dinamica della fuga dal dolore

Sono diversi e complessi i fattori in gioco in queste fughe da parte del terapeuta. Ho provato ad individuarne alcuni:

Mandato

Una delle componenti di tale conflitto è il mandato che il paziente ci dà, che il nostro lavoro prescrive e che noi, a volte in maniera ingenua ci prendiamo: eliminare il dolore dalla vita del paziente. Il paziente domanda: “sto male, aiutami a star meglio” e questo è molto simile ad un  “liberami dal dolore”. Spesso ci viene chiesto con rabbia “fammi tornare come prima”.

E’ chiaro, lo scopo finale del nostro lavoro è grosso modo sempre quello di accompagnare il paziente in una situazione in cui possa provare meno dolore, superando soprattutto quello inutile e sterile. Il fatto però che tale scopo possa essere raggiunto non eliminando il dolore o fuggendolo, ma passandoci attraverso, rendendolo generativo e non più mortifero per la vita e per la mente del paziente rende la cosa meno scontata e piacevole.

L’eliminazione del dolore è simile alla follia, è una dinamica che sterilizza il pensiero e impedisce l’evoluzione psichica. Per quanto possa sembrare scontato il dirlo ed il riconoscerlo a volte è un desiderio che si insinua nella nostra seduta e ci fa agire. Anche perché la richiesta può essere forte; viene da una persona che si trova in un momento di fragilità, che abbiamo preso in carico e abbiamo scelto di curare – nel senso più ampio del termine – abbiamo deciso di prenderci cura di lui. Per questo in tali situazioni è complicato mantenere lo sguardo lontano, verso il cuore del nostro mandato, perché ci rende più soli e ci sentiamo meno efficaci.

Soddisfare la richiesta immediata del paziente sarebbe un inganno, ma lo renderebbe più felice e ci farebbe apparire ai suoi occhi (ed ai nostri) piacevolmente potenti e buoni. Ogni volta che lavoriamo insieme al paziente sul dolore possiamo entrare in un artificioso conflitto rispetto ad un idea distorta di mandato.

L’impotenza

Non dimentichiamo quanto possa solleticare il nostro ego l’essere messi nella situazione di chi ha il potere quasi magico di eliminare il dolore; un po’ come quando si solleva un bambino caduto e lo si consola: il suo sguardo rivolto a noi una volta vissuta la magia è impagabile.

Purtroppo in terapia non è così, non siamo così potenti, ed è difficile e frustrante da accettare.

L’impotenza è un sentimento arduo da reggere per il terapeuta, il riconoscimento che nulla si può fare di fronte ad alcuni tipo di dolore ci mette a disagio. Nuovamente pare scontato, ma non lo è. E’ pesante, ed è un atto di profonda e umana umiltà comunicare al paziente che purtroppo non ci possiamo fare nulla, perlomeno nei termini della sua domanda di rimozione del dolore. Non possiamo eliminare alcuni dolori, ma solo mostrare loro come questi possano diventare forma e sostanza di una evoluzione. Come quando si guarda una foto emozionante ed ancora si piange. Soffriamo, ma c’è qualcos’altro dentro, una sorta di forza generativa, ormai accettata, un linguaggio ormai nostro. Lì c’è un dolore generativo.

Soluzioni

La reazione comune di fronte al dolore intenso è quella dell’evitarlo suggerendo soluzioni. Il paziente trova tali esempi ovunque: amici e conoscenti armati di buona fede consigliano di svagarsi, di non pensarci, di fare sport.  Oppure suggeriscono come vi siano cose più serie di cui preoccuparsi.

Alcuni pazienti portano dentro di sé questa voce. P., ad esempio, oscilla continuamente tra il riconoscere (a fatica e dopo un lungo percorso) la sua sofferenza ed il fuggirla dicendo a se stesso: “nel mondo c’è gente che sta peggio, devo fare qualcosa e smetterla di frignare, devo darmi una mossa”. Vero – penso con lui ogni volta – può anche essere vero, ma smetterai di frignare dopo aver dato un posto, una narrativa ed un senso al dolore sottostante.

Nuovamente è una trappola in cui anche il terapeuta può cadere: suggerire dall’alto della sua seggiola e degli anni di studio una soluzione concreta ed applicabile ad un problema che soluzione non ha, se non quella di accettarne l’inevitabilità e la pena che produce. Di fronte ad alcuni tipi di sofferenza dobbiamo tacere, consapevoli che per quanto sia difficile è inevitabile provarla. Anzi, fortunatamente viene provata, perché sovente l’alternativa è il manifestarsi di un sintomo più primitivo.

Il nostro dolore

Non approfondirò molto questo argomento, ma quando il dolore del paziente viene a toccare un nostro particolare tipo di dolore, un nostro punto debole, la nostra ferita, il matrimonio tra i due crea l’ambiente perfetto per una fuga di coppia dal dolore. Qui, come sempre, sono i frutti di una buona analisi personale ad intervenire, avvisarci e proteggerci.

Che fare?

Innanzitutto ascoltare le sensazioni della seduta, osservarne anche i micro-movimenti in modo da accorgersi quando queste fughe dal dolore avvengono o si stanno preparando. Prendersi del tempo dopo la seduta per comprendere cosa è successo. Riconoscere ed analizzare le dinamiche intercorse.

Niente di male se questa deviazione dal percorso di evitamento del dolore mentale avviene in modo consapevole e pensato da parte del terapeuta. A volte bisogna prendere fiato. Nella dinamica oscillatoria della seduta, che passa da momenti di maggior profondità a momenti più di superficie e di rielaborazione, tutto questo è naturale. Meno bene quando è frutto di agiti inconsci, che se ripetuti e non analizzati possono operare in modo poco terapeutico.

 

* sono tipologie di frasi che possono essere molto potenti, ma anche decisamente sterili e distanzianti. In questo caso, come in molti altri, la discriminante è lo stato d’animo del terapeuta mentre le comunica. Se sono un passaggio che riempie, che cerca di avvicinare il paziente in modo tecnico, un artificio del mestiere, lasciamo perdere, meglio tacere. Quando invece nascono come una comunicazione sentita e sincera hanno un grande potere di avvicinamento, di creazione di un’atmosfera sicura e di promozione dell’apertura da parte del paziente. In alcuni casi mi sono trovato semplicemente a dire al paziente “mi spiace che lei abbia passato tutto ciò” “che stia provando queste cose” senza aggiungere altro. Non sembra avere un grosso valore terapeutico a prima vista, ma quando era la traduzione di un mio reale stato d’animo, ha sempre avuto un effetto proattivo nel percorso.

 

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